La Storia potrebbe ricordarlo come l’uomo che ha salvato dall’estinzione il più antico tra gli attuali partiti italiani, tuttavia la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica continua a considerarlo il fratello del commissario Montalbano, fortunato personaggio inventato dalla penna geniale di Andrea Camilleri e trasformato in star internazionale dalla ventennale serie televisiva. È l’amaro destino di Nicola Zingaretti, di quattro anni più giovane del celeberrimo Luca, al quale il diretto interessato risponde con il sorriso di chi se n’è fatta una ragione e tutto sommato ritiene che in fondo sia giusto così. Anzi ha usato questa confusione come schermo dietro il quale proteggere la moglie, le due figlie, lo sconfinato amore per la politica, per cui ha tralasciato l’ambita laurea in lettere.
A differenza del fratellone, che lui tra l’altro sormonta in statura e corporatura, lo Zingaretti segretario del Pd non brilla per carisma, comunicatività, feeling persino in aperto contrasto con il suo segno zodiacale dei pesci. Nella stagione dominata dalla capacità d’incidere, di trasmettere empatia, di lasciare comunque il segno Zingaretti continua a credere nel lavoro dietro le quinte, nella fatica silenziosa, nel procedere un passo alla volta senza avventurismi e salti nel buio. Non pare il profilo di un leader, eppure mai ha perso un’elezione: da presidente dell’Unione internazionale dei giovani socialisti a presidente della Provincia di Roma, a presidente della Regione Lazio con rinuncia a correre da sindaco di Roma. Quando nell’ottobre del 2018 lanciò la propria candidatura per succedere a Renzi in un Pd proveniente dal peggiore risultato elettorale, poco più del 18%, sembrava che gli toccasse liquidare il partito, in cui era entrato poco più che ventenne e che al tempo si chiamava ancora Pci (Partito comunista italiano).
Alla crisi incombente Zingaretti ha risposto tessendo la tela della convivenza tra le tante anime del calderone democratico. Ha cercato di ricucire ciò che l’arroganza e i metodi sbrigativi di Renzi avevano sbrindellato. Si è sforzato di rilanciare il senso dell’appartenenza. Ha provato a includere lì dove il suo predecessore si era divertito a rottamare. Il lunghissimo cursus honorum, fatto pure d’incarichi all’apparenza minore, gli ha insegnato a trasformare i problemi in opportunità, le battute d’arresto in spinta per la ripartenza. La desuetudine ai proclami, l’idiosincrasia per la battuta a effetto gli sono serviti nella gestione di una realtà così controversa e contraddittoria.
L’inattesa crisi di governo scatenata da Salvini la scorsa estate non ha prodotto le elezioni anticipate, che a Zingaretti non dispiacevano. Gli avrebbero infatti permesso di plasmare un corpo politico molto più omogeneo di quello che l’aveva eletto segretario, ma che lo teneva in ostaggio essendo nella quasi totalità fedele a Renzi. Le sue speranze sono state frustrate dall’inatteso voltafaccia dello stesso Renzi, capace di lanciare all’improvviso l’alleanza con il detestato M5S nel nome della crociata anti Salvini. È stata la mossa che ha scardinato i progetti sia di Salvini, sia di Zingaretti. Il primo ha finito con l’impiccarcisi all’inseguimento del ribaltone impossibile. Il secondo, al contrario, sull’imprevisto ritorno al governo ha costruito una nuova visione recuperando il rapporto con gli scissionisti di Liberi e Uguali, pochi di numero, però fondamentale ponte di collegamento con la variegata sinistra radicale.
Davanti agli umori altalenanti del Movimento, il Pd di Zingaretti si è trasformato nella roccia, alla quale si volevano aggrappare i numerosi italiani contrari al settarismo, all’istigazione all’odio, alla violenza non solo verbale scatenati da Salvini. La cautela di Zingaretti, il continuo privilegiare ciò che unisce una maggioranza tanto eterogenea, la lealtà nei confronti di Conte sono stati valutati un sano ritorno alle regole della politica civile, lontana dalle smargiassate, dalla bugie a ripetizione, dall’insulto. E se Renzi l’ha liberato dalla sua presenza sono occorse tutta la sua capacità d’incassatore per non alienarsi un alleato di governo e tutta la sua esperienza di mediatore per contenere in termini quasi irrilevanti le defezioni. Per il Pd è stato il momento più delicato: i lievi progressi registrati nelle Europee della primavera 2019 (il 22%) potevano essere spazzati via da quel 10%, che Renzi giurava di avere con sé. Nella realtà sono stati molto di meno e già si registrano diversi casi di resipiscenza.
Nelle regionali vissute a distanza in Emilia-Romagna e con discrezione in Calabria il successo di Bonaccini è stato corroborato da un Pd spintosi nella regione oltre il 40% con le liste associate e primo partito financo nella desolata Calabria. Zingaretti ne ha tratto la lezione di lasciare il quadro intatto, malgrado il M5S sia ridotto ai minimi termini: dunque, conferma della futura legge proporzionale e nessuna tentazione di maggioritario per non irritare i disperati pentastellati, nessuna richiesta di rimpasto, disponibilità ad accogliere i nemici di ieri trasformatisi in convinti estimatori di oggi. E mai dimenticarsi di essere comunque il fratello del commissario Montalbano, nonostante chi l’avvicini non chiede più se può fargli avere l’autografo di Luca.