A un certo punto, speriamo presto, gli ucraini e i loro mentori americani ed europei dovranno negoziare con Vladimir Putin (nella foto). E viceversa. Nessuno può prevedere quando e a che condizioni sarà possibile farlo. Ma a meno che la guerra in Ucraina vada fuori controllo, magari estendendosi su altri fronti, prima o poi vedremo negoziatori russi e ucraini a un tavolo. E forse, subito dopo, anche Joe Biden e Putin riprenderanno a parlarsi per stabilire il tipo di relazioni che sarà ragionevole instaurare dopo l’avventurosa aggressione russa del 24 febbraio.
Scopriremo allora che il movente essenziale di quell’attacco non aveva specificamente a che fare tanto con l’Ucraina, con la Nato o con gli assetti di sicurezza in Europa. La ragione di fondo dell’aggressione ha molto a che fare con la persona Putin, con la sua storia e la sua molto peculiare visione del mondo. In una parola, con la sua insaziabile pretesa di riconoscimento. Di rispetto. Per sé e per la Russia, con cui si identifica, e che oggi largamente si identifica con lui, per quanto tempo non sappiamo. Tutto nasce dall’esperienza del crollo dell’Unione sovietica. Dunque della forma novecentesca dell’impero russo. Putin non ha mai digerito quella catastrofe. Da persona di notevole intelligenza e realismo, sa che la Federazione russa è solo una frazione, in termini di potenza, di quel che fu l’Unione sovietica. Ma pretende che sia rispettata come grande potenza. È su questa base che per i primi anni della sua presidenza ha bussato ripetutamente alla porta dell’America, nella speranza di vedersi riconosciuto un ruolo almeno formalmente paritario nel palcoscenico mondiale. Ruolo da fondarsi essenzialmente sulla potenza atomica. Senza successo.
Dal 2007 a oggi Putin, progressivamente disilluso, amareggiato e infine furibondo, si è allontanato gradualmente da quella traiettoria. Il 24 febbraio ha deciso di tagliare i ponti. E come spiega Fjodor Luk’janov – uno dei suoi più ascoltati consiglieri, oggi come tutti gli altri meno ascoltato di prima – nel volume di Limes dedicato al «caso Putin», invadendo l’Ucraina ha voluto segnalare al mondo che esiste un’alternativa all’egemonia americana e che lui quell’alternativa intende incarnare. La Russia si vuole avanguardia di un nuovo ordine, insieme alla Cina e a gran parte del fu Terzo mondo. Gli storici stabiliranno se e quali errori abbia compiuto l’Occidente in questi anni nella relazione con la Russia. Nessuno dei quali, naturalmente, può legittimare l’aggressione all’Ucraina. Ma può certamente contribuire a spiegarla. Questo però riguarda il passato. Guardiamo avanti.
La domanda è allora: varrà la pena trattare con Putin? L’esperienza di questi ultimi anni non ci dovrebbe spingere a considerarlo un esercizio inutile, anzi pericoloso? Probabilmente molti, specie in America e nei paesi dell’Europa baltica, Polonia in testa, la pensano così. Credono sia possibile far fuori Putin e con lui, forse, lo stato russo. Per virare sul caso russo la celebre battuta di Andreotti sulla Germania, costoro amano tanto la Russia che ne vorrebbero una dozzina. Tanti frammenti di impero russo ridotti allo stato coloniale, all’impotenza. Ammettiamo che abbiano ragione. Che sia possibile rovesciare, con il regime, anche lo stato russo. Ma almeno di non immaginare che quell’enorme spazio – undici fusi orari – sprofondi nelle viscere della Terra, resta la questione: abbiamo la voglia, la forza e i soldi per gestire tante piccole o meno piccole Russie? E per farne che? O le lasciamo diventare terre di nessuno, aperte a ogni scorribanda? E le seimila testate nucleari russe, che fino faranno? Ce le divideremo in un’asta globale?
Se ne deduce che prima o poi con Putin, o con chiunque sieda al Cremlino, noi occidentali dovremo trattare. A partire dai nostri interessi, senza alcuna corrività, che d’altronde qualsiasi leader russo – specie se Putin – non rispetterebbe. Ma perché il negoziato abbia senso e porti a ristabilizzare un mondo in via di impazzimento, sarà necessario fissare prima fra noi che cosa vogliamo o non vogliamo dalla Russia, e che cosa possiamo ottenere. L’impressione è che in America come fra gli europei non vi siano idee molto chiare al riguardo. Ma un posto a tavola a Mosca comunque spetta, salvo appunto avventurarsi nella sua liquidazione, e sperando che nel frattempo che non si suicidi in una guerra intestina il cui prezzo ricadrebbe anche sul resto del pianeta. La base di ogni negoziato dev’essere l’assoluta franchezza che nasce dal reciproco rispetto. L’esito non lo conosciamo, ma certamente Putin e la sua Russia non saranno mai pari dell’America né paria nel mondo. Da tale premessa sarà bene cominciare a riflettere su quello che potrà essere il molto provvisorio end state del conflitto in corso.