Non era imparziale il giudice che a ridosso delle presidenziali dell’ottobre 2008 ha spalancato le porte del carcere all’ex presidente brasiliano Lula da Silva, candidato favorito secondo tutti i sondaggi (di tutti gli istituti di indagine, anche di quelli considerati ostili al partito di Lula, il partito dei lavoratori al governo dal 2003 al 2011). Liberando così la strada per il Planalto all’allora candidato di estrema destra e attuale presidente Jair Bolsonaro. Questa è l’accusa che vien fuori dallo scoop clamoroso del sito Intercept Brasil, diretto dal giornalista statunitense Glenn Greenwald. È enorme e promette di crescere la tormenta destata dalla notizia perché l’accusa di parzialità riguarda Sergio Moro, l’ex giudice noto in tutto il mondo per essersi costruito il personaggio mediatico di arcinemico dell’ex presidente Lula.
Il sito d’inchiesta ha pubblicato il contenuto di parte dei messaggi audio scambiati tra il coordinatore della pubblica accusa nel principale processo a Lula, Deltan Dallagnol, e l’attuale ministro Moro ai tempi in cui era ancora giudice di prima istanza nella procura di repubblica di Curitiba.
Moro, quale giudice di primo grado, era in quel processo chiamato a giudicare le prove portate dalla pubblica accusa contro Lula. La legge vieta ovviamente al magistrato giudicante di interferire nella acquisizione delle prove che poi sarà chiamato a giudicare. I due invece, si deduce con evidenza dal contenuto dei messaggi, si scambiavano infinite informazioni. Moro, risulta dalle conversazioni, consigliava passo passo i pm del pool. Spiegava cosa andava raccolto e cosa no. Suggeriva testimoni. Si diceva insoddisfatto dell’evidenza di alcune prove. Dettava mosse, indicava errori, guidava i passi dell’indagine. Nei messaggi lo si sente gioire col pm per il successo mediatico e per le ricadute politiche dell’inchiesta. Complimentarsi via chat con se stesso e con i pm per il gran terremoto politico provocato. «Complimenti a tutti noi» scriveva.
Tutto ciò, in base se non altro all’articolo 254 del codice del processo penale brasiliano che definisce esplicitamente «giudice sospetto» il magistrato che «consigli qualsiasi delle due parti» (accusa o difesa), consente ai legali dei condannati in quei processi di considerare il giudice «non imparziale». E di chiedere quindi l’annullamento del giudizio.
Le chat finite nella redazione di The Intercept, essendo state probabilmente acquisite illegalmente anche se il sito dice di averle ricevute da fonte anonima ma non da un hacker, non sono utilizzabili contro i protagonisti delle conversazioni. Ma sono materiale prezioso per la difesa di Lula che è ricorsa davanti a tutti i tribunali internazionali possibili per denunciare, inascoltata finora, la violazione del diritto dell’imputato ad essere condannato da un giudice imparziale. Tutto questo inizia a risolvere i guai giudiziari Lula? No. Lula potrebbe accedere tra qualche tempo ai benefici del regime carcerario semiaperto, lo dovrebbe decidere a breve il Supremo tribunale. Ma l’aspetta tra poche settimane la sentenza di primo grado per un secondo processo (ne ha cinque in piedi) per corruzione.
Le accuse di questo secondo processo, sempre passate al vaglio dell’allora giudice Moro, sono molto simili a quelle per cui l’ex presidente è stato condannato per corruzione passiva e riciclaggio di denaro. Si tratta sempre di una vicenda riguardante una casa vicino a San Paolo messagli a disposizione, secondo l’accusa, da una grande azienda in cambio di contratti di favore con imprese di Stato. Stavolta non un appartamento sulla costa, ma una casa di campagna. La denuncia della pubblica accusa accolta a suo tempo da Moro parla di una ristrutturazione del valore di 280 mila dollari pagata interamente dalle imprese di costruzione Odebrecht, Oas e Schahin, in cambio di contratti con l’impresa petrolifera statale Petrobras. La villa è stata frequentata dalla famiglia di Lula, ma non è di sua proprietà. Lo sarebbe «di fatto» secondo i pm.
Secondo la difesa invece le accuse «si riferiscono a contratti firmati da Petrobras che lo stesso giudice ha riconosciuto, in un’altra sentenza, non aver portato nessun beneficio a Lula». Fatto sta che la sentenza è imminente e la partita giudiziaria per Lula potrebbe ricominciare dall’inizio.
Lula è in galera perché condannato per i lavori per la ristrutturazione di un attico, in una località balneare del litorale di San Paolo. Quella ristrutturazione, secondo i giudici di primo e secondo grado, nasconderebbe il pagamento di una tangente di circa un milione di euro, da parte di una impresa di costruzioni beneficiata dal sistema di tangenti di cui Lula è considerato essere stato a conoscenza. La difesa dell’ex presidente ha sempre contestato, tra altri moltissimi rilievi di scorrettezze e violazioni di norme, il fatto che la proprietà di quell’appartamento non può esser fatta risalire a Lula perché non esiste un documento di proprietà, nulla che somigli a un atto di compravendita. Moro disse in proposito che «nei reati di riciclaggio il giudice non può attenersi unicamente alla titolarità formale dei beni» sostenendo che quell’attico fosse di fatto a disposizione dell’ex presidente. Che, però, non l’ha mai abitato nemmeno per un giorno.
Moro non ha negato la autenticità dei messaggi divulgati da The Intercept. Non ha fatto cenno alla gravissima violazione di legge che, in tutta evidenza, parlando in quei termini con i pm ha commesso. È apparso stordito, come se ritenesse una eventualità impossibile che le sue conversazioni potessero non restare eternamente segrete. A caldo ha solo detto che è del tutto normale che giudici e pm si parlino durante le inchieste. Gli addetti alla comunicazione della presidenza della repubblica appaiono tuttora imbarazzatissimi. Il presidente Bolsonaro, che di solito twitta freneticamente, ha taciuto per tre giorni. Poi mercoledì scorso è apparso in pubblico con Moro, gli ha conferito una onorificenza. Prima del pubblico incontro si sono riuniti a porte chiuse per un’ora.
In tanti chiedono le dimissioni di Moro e l’allontanamento dei pm dalla inchiesta Lava Jato, la Mani Pulite brasiliana, finché non si chiarisce la vicenda. Anche alcuni giudici del Tribunale supremo si sono pubblicamente espressi con toni gravi sulla vicenda. Il giudice del Tribunale supremo Marco Aurelio de Mello è stato piuttosto esplicito al riguardo. Ha detto che il ministro della Giustizia è in una situazione di debolezza dopo la pubblicazione di quelle conversazioni. Ciò comprometterebbe, ha fatto chiaramente intendere, quanto meno la nomina di Moro a giudice del Tribunale supremo, già promessagli da Bolsonaro. A novembre del prossimo anno resterà vacante il posto (sono undici i supremi giudici e sono le persone più potenti del Brasile) del giudice Celso de Mello e la nomina di Moro era considerata ormai scontata.
Il ministro non dà segni, per ora, di prendere in considerazione le dimissioni. Ma cominciano a farsi avanti critiche e richieste di farsi da parte anche da pulpiti che finora l’hanno osannato come il giustiziere al quale tutto è permesso. A nessuno è sfuggito, ad esempio, che il quotidiano «Estado de Sao Paulo», una delle voci più impegnate nel sostegno con tifo quasi da stadio alle inchieste della Mani Pulite di Moro, ha pubblicato subito dopo lo scoop di The Intercept un editoriale fitto di critiche al ministro in cui gli suggerisce di lasciare immediatamente l’incarico.
Glenn Greenwald annuncia di avere da parte messaggini audio privati di Moro ancor più clamorosi. Dice di aver pubblicato solo l’1 per cento delle conversazioni tra il giudice e i pm. Pare che alcuni di quei messaggi riguardino l’invito di Bolsonaro a Moro, prima del ballottaggio per le presidenziali, a diventare suo ministro. Dall’entourage del presidente venne fuori che il giudice aveva chiesto in cambio della sua disponibilità a entrare nel governo Bolsonaro la nomina a magistrato del Tribunale supremo, richiesta che Moro ha sempre smentito di aver fatto. The Intercept fa intendere che ha a disposizione materiale per chiarire la questione.
Tutto ciò può forse riaprire i giochi per le presidenziali, visto che Lula ha dovuto ritirare la candidatura a causa della sentenza di condanna di secondo grado di un processo passibile di essere considerato nullo? No. La legge brasiliana è in materia molto simile a quella statunitense: il presidente può esser fatto fuori soltanto con una procedura di impeachment. Dovesse, però, saltar fuori che c’è stato un accordo per far condannare Lula in secondo grado, e renderlo così incandidabile, frenare la valanga politica generata dallo scoop diventerebbe per Moro impossibile.