L’Italia è un paese sistemico che non è cosciente di esserlo. La terza economia europea, integrata nella famiglia euro e fortemente interdipendente con le maggiori economie continentali sotto il profilo sia reale che finanziario, è di nuovo sull’orlo del baratro. La crisi politica, destinata comunque a produrre entro breve tempo una calda tornata elettorale non necessariamente decisiva per sciogliere i dilemmi su chi governerà il Paese, si è avvitata su se stessa e sta strangolando il Paese. Le agenzie di rating rischiano di ridurre a spazzatura i nostri buoni del Tesoro, mentre lo spread nelle ultime settimane ha ripreso a correre lungo le montagne russe. Le rassicurazioni delle istituzioni italiane non rassicurano nessuno, perché il macigno degli oltre duemila miliardi di debito, tuttora in crescita a causa degli interessi da pagare su di esso, pesa e peserà molto a lungo sulla salute finanziaria ed economica, quindi anche sociale e politica della Penisola.
In Germania molti si pentono di aver ceduto, per considerazioni squisitamente politiche, all’idea di ammettere l’Italia nell’euro. Per il quale Roma non era pronta. Le esposizioni delle banche tedesche e di altri rilevanti paesi europei verso l’Italia restano importantissime, e perfino quelle americane iniziano a preoccuparsi di avere in pancia titoli italiani privi di valore o quasi. Inoltre, l’Italia settentrionale è pienamente immessa nella catena del valore germanico, in qualche misura anche francese e svizzero.
L’eventuale bancarotta italiana avrebbe quindi riverberi strategici sulla zona euro, ma anche sul resto dell’economia europea e mondiale. In poche parole, come ha scritto Bloomberg, «l’Italia è troppo grande per fallire ma anche per essere salvata». Di qui lo spettro della trojka –il consorzio fra Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale e Commissione europea – che si materializza in fondo al tunnel della crisi italiana. Ma la Repubblica Italiana non è la Grecia. Nemmeno il tutore internazionale potrebbe garantirne la sterilizzazione.
Se si salverà, l’Italia dovrà farlo con le sue forze. Lo stato della classe dirigente e soprattutto della classe politica è però deprimente. Le sceneggiate dei due vincitori (o migliori perdenti) delle elezioni del 4 marzo – Movimento 5 Stelle e Lega di Salvini, ormai virata verso il nazionalismo e non più «padana» – sommate all’inconsistenza del Pd e di Forza Italia non promettono nulla di buono. Evidentemente manca il senso d’urgenza, e ciascuno pensa solo ad accaparrarsi voti in vista del prossimo turno elettorale.
Questo implica per tutti i soci dell’Eurozona la necessità di ripensarne le strutture. Le attuali sono basate su assurde acrobazie, che tentano di surrogarne gli errori di costruzione. Come avvertì a suo tempo lo stesso cancelliere Kohl, lanciando l’unione monetaria, questa non può resistere senza unione politica. Ma chi può sensatamente immaginare oggi o anche dopodomani la fusione dei 19 Stati della zona euro in un’unica istituzione sovrana? E anche i propositi di vaga confederazione restano tali. Ognuno parte dalla prevalenza dei propri interessi nazionali sugli altrui. Unica eccezione, guarda caso, l’Italia, culturalmente non in grado di articolare davvero interessi propri.
In questo contesto, retto dal principio «nessuno per tutti, ciascuno per sé», è interessante notare il dibattito ormai pubblico che si è aperto in Germania sulla necessità di rivedere le regole dell’Eurozona, consentendo a chi ne è parte di uscirne in modo sperabilmente ordinato, ma senza abbandonare l’Unione Europea, quindi l’unione doganale e il mercato, come i trattati vigenti prevedono. Più che a Roma, a Berlino si guarda al caso proprio. Al possibile «Germanexit», la fuoriuscita volontaria della Repubblica Federale dalla moneta comune, una volta constatatane l’intenibilità. Misura preventiva, profilattica. Alla Germania potrebbero poi aggregarsi i paesi della sua sfera d’influenza geoeconomica in Europa centrale, orientale e settentrionale, oltre alla forse inevitabile Francia. Certo non l’Italia né la Grecia, probabilmente nemmeno Spagna e Portogallo. Si tornerebbe allo schema della Kerneuropa, già proposto da Schäuble e Lamers nel 1994, mirato a consolidare l’integrazione fra Francia, Germania, Lussemburgo, Belgio e Olanda, cui si aggiungerebbe oggi l’Austria e non solo.
Il problema è che modifiche ai trattati impegnano in genere anni di trattative, mentre qui si richiedono reazioni immediate, dilazionabili forse di qualche mese. Sappiamo che in casi di emergenza tedeschi e francesi hanno la forza e il carattere per sovvertire le regole da loro stessi sottoscritte. Lo hanno fatto rompendo quando necessario il patto di stabilità e salvando le loro banche dal collasso greco, ad esempio. Potrebbero provare a rifarlo nel caos italiano, in dimensioni peraltro completamente diverse (l’economia ellenica vale un decimo dell’italiana).
Di sicuro l’Unione Europea e l’Eurozona, dal referendum sul Brexit in avanti, stanno mutando pelle. Senza avere un progetto preciso né condiviso, spinti dalle emergenze. Sarà bene per tutti prenderne nota. Svizzera compresa.