Come spiegare la guerra ai più giovani

Il libro Lo sguardo oltre il confine della nostra collaboratrice Francesca Mannocchi è corredato di cartine, cronologie e glossari
/ 10.10.2022
di Romina Borla

La guerra non è solo bombe che cadono e carri armati che avanzano, tattiche militari e dichiarazioni ufficiali. La guerra è anche la vita di donne, uomini e bambini che cambia all’improvviso. Relazioni e routine che si spezzano. Valigie (o borse di plastica) in mano, terrore e speranza. Istinti primordiali, il primo tra tutti quello della sopravvivenza. Spiegare la guerra – che trasforma l’uomo «in un essere spaventoso e oscuro», come dice Svetlana Aleksievič – non è per niente facile. C’è qualcosa che sfugge, qualcosa che bisogna guardare da vicino, qualcosa da raccontare con tratti sfumati e pieni di umiltà. È ciò che fa da anni Francesca Mannocchi – tra le altre cose collaboratrice di «Azione» – nei suoi reportage dai Paesi in conflitto ma anche nel libro Lo sguardo oltre il confine pensato per ragazze e ragazzi (dai 12 anni) e pubblicato da De Agostini lo scorso settembre. Un saggio adatto anche agli adulti, abituati a leggere veloci notizie online che – senza un’adeguata conoscenza delle dinamiche della Storia – rimangono istantanee di drammi sospesi, in contesti di momentanea follia.

Il libro è pieno delle parole di Alina, Olga, Husen e Shadi – con le loro esistenze travolte – ma anche della loro tenacia nell’andare avanti nonostante tutto. Testimonianze raccolte dall’autrice in Paesi quali Libano, Afghanistan, Ucraina, Libia, Iraq e Siria. L’intento di Mannocchi è quello di «partire dall’ascolto dell’esperienza di una persona per allargare lo sguardo: per fare sì che una vita non resti solo espressione di un’emozione, ma sia parte del più ampio significato del tratto di Storia che vive». Quello che la motiva nel suo lavoro di reporter – ci spiega – «è la curiosità, il desiderio di vedere e di capire la realtà. Ho scritto questo libro partendo dall’esigenza che sento – anche per mio figlio – di non ridurre le cose che ho intorno ai minimi termini, di non semplificarle troppo ma di imparare dai più giovani la virtù di accogliere la complessità del mondo».

Ogni capitolo è corredato di una cartina, una cronologia e un glossario. In quest’ultimo si trovano parole che popolano il linguaggio dei media: dal «settarismo» alla «inflazione» passando per «talebani», «rifugiato», «guerra civile», «diaspora», «urbicidio» ovvero «la distruzione sistematica (materiale, culturale, etnica) di una città» ecc. «Perché le parole – scrive la giornalista – questo straordinario strumento di cui siamo dotati per dare senso al mondo, vanno accudite, e il modo che abbiamo per accudirle è non usarle con superficialità. (…) Il primo invito, dunque, è quello di conoscere in profondità il senso delle parole che usate ed essere sempre consapevoli che definire può essere anche una forma di limitazione. Ancora di più, definire in tempo di guerra: si rischia di generalizzare le vite delle persone al loro unico stato di vittime».

In secondo luogo Mannocchi ci invita ad immedesimarci: «Immaginate di dover uscire dalla vostra cameretta ora per andare su quei binari delle stazioni ucraine, col rischio di non tornare più indietro. Che oggetti prendereste? Immaginate che la vostra nuova casa sia (…) una tenda in un campo torrido, con i bagni condivisi da cento, duecento persone, dove l’acqua e il cibo sono razionati. Che emozione sentireste crescere dentro di voi? (…) Immaginate che l’unico modo per scappare dalle bombe sia salire su un gommone con altre cento persone: bambini che piangono, padri e madri che gridano. (…) Come sperereste di essere accolti, una volta arrivati a terra? (…) Immaginate di dover spiegare a un bambino che ha fame e sete che non c’è più né acqua né cibo (…)». Ed è proprio quando si comincia a guardare il mondo con gli occhi dell’altro che si delinea con forza la crudeltà e l’insensatezza dei conflitti, il desiderio di interromperli. Anche se – come ricorda Mannocchi – «la guerra non finisce quando viene dichiarato il cessate il fuoco».

Va bene la necessità di comprendere il mondo e l’importanza della testimonianza, diciamo all’autrice. Ma lei, al fronte, non ha paura? «La paura è un’alleata», risponde. «È ciò che ci consente di non fare sciocchezze, di non crederci invincibili, immortali, di non pensare di poter controllare tutto quando è impossibile farlo. Ho paura spesso, in ogni teatro di conflitto. Cosa faccio per contrastarla? Cerco di restare concentrata e soprattutto mi fido delle persone con cui lavoro che vivono in quei luoghi e che mi consigliano. La loro voce ha un valore inestimabile. Se mi dicono fermati, io li ascolto».