A guardare le immagini dell’orda di fanatici trumpiani che tenta con successo l’irruzione dentro al Campidoglio viene da chiedersi: come siamo arrivati a questo punto? La risposta c’entra con la pizza e con la disinformazione. Come tutti ricorderanno, cinque anni fa fra i circoli della destra e dei sostenitori di Trump cominciò a girare una teoria del complotto che riguardava i democratici. Ne esistevano molte versioni, ma più o meno la trama era la stessa: il partito democratico era in realtà una gigantesca operazione di copertura per una rete di pedofili che si riuniva per i suoi traffici infami in una pizzeria di Washington (la capitale americana ha sempre un fascino irresistibile per i complottisti). A dare il via a questa teoria del complotto erano stati i servizi russi, che avevano hackerato le mail del Partito democratico e le avevano gettate su internet a disposizione di tutti.
Da lì era cominciata un’opera perversa di lettura delle mail alla ricerca di dettagli e di indizi nascosti. E poiché sappiamo che internet è internet, a un certo punto molti si erano convinti che alcune mail dal contenuto innocente fossero in realtà messaggi in codice tra i leader democratici. Andare a mangiare la pizza? Voleva dire andare ad abusare di bambini. Le pizze erano i bambini. E una pizzeria in particolare era, nella mente dei complottisti, la prigione delle piccole vittime – rinchiuse in sotterranei.
Fino a qui è una storia demenziale, ma ora arriva la parte interessante. Un ventottenne prende un fucile Ar-15 (quello più usato nelle stragi, arma temibile) e una pistola, sale in macchina, fa qualche centinaio di chilometri fino alla pizzeria, entra, spara tre colpi contro un tavolo e una parete e cerca di scendere nella cantina – che per lui è il sotterraneo dove gli aguzzini tengono prigionieri i bambini. Lui si vede come un eroe. Il problema è che la pizzeria non ha una cantina. Non ci sono sotterranei. Arriva la polizia, circonda il locale, il giovane si arrende. È confuso: credeva che quello che aveva letto sui siti fosse vero (su quei siti che bazzicava perché ricordiamo che il resto dei media, per questa gente, non dice mai la verità), aveva imbracciato le armi e invece scopriva di essere dalla parte del torto. Voleva arrestare cattivi e invece era lui a essere arrestato. Avevo delle informazioni sbagliate, ammetterà poi davanti al giudice.
Questa vicenda è diventata famosa con il nome di Pizzagate ed è accaduta nel dicembre 2016, quindi nel lasso di tempo tra la vittoria alle presidenziali di Donald Trump e il suo insediamento alla Casa Bianca. Il clima era quello. Basta moltiplicare per mille e si capisce cosa è successo mercoledì mattina. Un gigantesco Pizzagate contro il Congresso. La folla che è arrivata a Washington da tutto il Paese e ha ascoltato Trump dal vivo non vedeva l’ora di sconfiggere i cattivi – o almeno così aveva capito. Il presidente americano da mesi continua a dire che le elezioni sono state un grande inganno e che ci sono stati brogli. Ci hanno rubato la Casa Bianca!
La folla ha fatto irruzione al Campidoglio con la stessa foga che il solitario cacciatore di pedofili immaginari aveva usato anni prima in un quella pizzeria, nemmeno troppo distante. E una volta dentro non sapeva nemmeno cosa fare. Non ci sono state dichiarazioni, appelli, ultimatum. I fanatici trumpiani hanno rovesciato un po’ di fogli, si sono fatti molti selfie, hanno spaccato qualche vetro e adesso rischiano anni di carcere.
Il giorno dopo Ministero della Giustizia e l’Fbi hanno annunciato una campagna implacabile per incriminarne il maggior numero possibile. Non saranno indagini molto complesse. Questi trasmettevano in diretta l’irruzione sui loro profili social, convinti per qualche ragione di godere di impunità totale. Poche ore di entusiasmo e ora dovranno vedersela con una lista di reati federali che vale anni di carcere. Quello che i siti della destra avevano fatto al giovane del Pizzagate nel 2016, quattro anni di intossicazione trumpiana hanno fatto a migliaia di americani che si sono presentate a Washington «to stop the steal», per fermare il furto (e ad altre centinaia di migliaia che sono rimaste a casa).
La cosa tocca da vicino il partito repubblicano, che si era convinto di poter controllare queste pulsioni populiste e invece ne è finito divorato. Il populismo del 2016 era una fonte potente di voti, era seducente, era internazionale – vedi per esempio il referendum sulla Brexit nel Regno Unito – ed era difficile dire di no. Era bello cedere a Trump, anche se qualcuno già suonava l’allarme. «Se sceglieremo Trump finiremo per essere distrutti e ce lo saremo meritati», disse un senatore repubblicano, Lindsey Graham, che poi è diventato uno dei più fedeli consiglieri del presidente.
Ma già all’inizio questo patto con il populismo conteneva le avvisaglie del processo degenerativo di cui vediamo gli effetti in questi giorni. In ogni sua fase, occorre aumentare la dose per soddisfare i fan ed è esattamente quello che ha fatto Trump. Invece che acquisire esperienza e bravura nel calcolare le sue mosse, invece che superare le ingenuità iniziali e diventare sempre più istituzionale, per quattro anni il presidente ha disceso una china ripida. Ha raddoppiato in populismo a ogni occasione e spesso è stato premiato. È uscito quasi illeso da dichiarazioni che avrebbero steso qualsiasi altro politico. Il Covid-19 che «sta per sparire, adesso abbiamo quindici casi ma nel giro di un paio di giorni scenderanno a zero» – così disse durante una conferenza stampa a febbraio. La milizia fascistoide dei Proud Boys che deve «tenersi pronta» – così disse durante un dibattito in diretta tv contro Joe Biden. E tante altre.
Il partito non ha mai battuto ciglio. Quando i democratici hanno tentato un impeachment un anno esatto fa (sembra passato molto più tempo), i repubblicani lo hanno difeso compatti come un sol uomo. Quando chiedevano a Trump cosa pensa di QAnon, il culto apocalittico che lo considera un semidio e crede che i suoi avversari siano dei pedofili che vanno rinchiusi a Guantanamo, lui ha glissato sempre. Perché rinunciare a fan così entusiasti, anche se è l’entusiasmo dei folli? Mercoledì quelli di QAnon erano in prima fila durante l’assalto al Campidoglio, si sono trasformati nel suo braccio. Il primo a sfondare il cordone della polizia è stato un uomo di QAnon, lo sciamano con le corna che si vede in tantissime foto, è di QAnon, la donna che è morta per i colpi di pistola delle guardie, è di QAnon e i simboli della setta erano dappertutto, sulle bandiere e sui vestiti.
Adesso tutti i repubblicani abbandonano il presidente degli eccessi, fuori tempo massimo. Il suo ministro della Giustizia, cacciato a dicembre, dice che Trump ha tradito il Paese. Il capo della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, ha respinto le teorie del complotto di Trump e ha certificato la vittoria di Biden. Persino il suo vice, il fedelissimo Mike Pence, gli ha voltato le spalle e ora è diventato il bersaglio più detestato dalla base del presidente – almeno fino a quando non ci sarà un nuovo bersaglio da odiare ancora di più. Il partito ha perso la maggioranza al Senato e Stati simbolici come l’Arizona e la Georgia, che votavano sempre repubblicano da più di vent’anni. Quel che è peggio, di fatto i repubblicani sono scissi in due tronconi. Se stanno con Trump non stanno con le istituzioni, e viceversa.