Come governare le migrazioni?

Il mondo che verrà – 4. parte Che cosa c’è dietro il dibattito sullo Ius soli e le nuove regole per l’acquisizione della cittadinanza nei paesi di arrivo?
/ 24.07.2017
di Federico Rampini

Per arrivare a Ventimiglia prendo un treno locale da Genova, di quelli che fanno tutte le fermate. Mentre sto leggendo, all’improvviso scoppia un parapiglia. Nel corridoio del treno vedo sfrecciare di corsa un ragazzo nero. A pochi metri di distanza, lo insegue una donna controllore che urla: «Devi scendere! Scendi subito! Guarda che non mi sfuggi!» Dopo un po’ la funzionaria di Trenitalia rinuncia, arrivata in fondo al vagone si ferma e torna indietro ansimando. Per rincuorarla le faccio i complimenti per lo scatto, la butto sul ridere. Non è una ragazzina, ci vuole fiato per correre così, dietro un ventenne. Ci vuole anche coraggio. Ogni tanto leggo notizie di aggressioni violente, capitreno e controllori pestati o accoltellati. Non sempre, ma spesso da immigrati che viaggiano senza biglietto. Che sia un andazzo frequente posso testimoniarlo, pur abitando in America: ogni volta che sono in vacanza in Italia e prendo un treno locale mi capita di assistere a scene simili.

L’abitudine di viaggiare a sbafo è diffusa tra gli immigrati. Ci saranno pure italiani che fanno lo stesso, però tra gli stranieri sembra un vizio di massa. I poveri controllori sono costretti a trasformarsi in poliziotti, pur disarmati. Combattono una piccola guerra quotidiana, forse inutile, per istillare un senso di legalità, di rispetto delle regole. Li ammiro perché non ci guadagnano proprio nulla, non ne ricavano un tornaconto personale, corrono dei rischi per fare il proprio dovere. La donna controllore sul treno per Ventimiglia ha il senso dell’ironia e ha voglia di sdrammatizzare: «Finché le gambe mi reggono, continuo. Ma ormai mancano solo due mesi alla pensione, e allora chi s’è visto s’è visto…»

La scena del treno fa da preludio alla mia visita ai profughi di Ventimiglia. Questa è l’ultima città della Liguria prima del confine con la Francia. Un tempo, prima dell’emergenza profughi, quando l’Europa rispettava gli accordi di Schengen, il confine di Ventimiglia era diventato virtuale, lo si passava senza controlli. Poi la Francia lo ha chiuso per bloccare l’afflusso indesiderato. Adesso i profughi che fanno il viaggio della speranza, vengono dall’Africa e raggiungono la costa libica, poi attraversano il Mediterraneo e sbarcano in Italia (se sopravvivono), raramente vogliono rimanere nel nostro Paese. Le mète più ambite sono a Nord: Germania, Scandinavia, Inghilterra.

Alcuni vogliono andare in Francia perché vengono dall’Africa francofona e pensano che un futuro migliore li aspetti lì; magari hanno parenti o amici dai quali farsi aiutare. Oppure la Francia stessa è terra di transito, per raggiungere Calais e da lì tentare il passaggio in Gran Bretagna. Adesso vanno a cozzare contro la barriera di Ventimiglia, la polizia francese li respinge. È una nuova linea rossa: vietato oltrepassarla. È una frontiera invisibile dal significato inquietante per molti italiani. È come se i veri confini dell’Africa si fossero spostati qui. L’Italia risucchiata nel suo «destino mediterraneo». La Francia che non ci tratta più come Europa, ma come Sud dal quale arrivano gli indesiderati, il pericolo.

Quest’immagine del confine africano che si è trasferito a Ventimiglia, la ritrovo lungo il fiumiciattolo Roja. È uno di quei corsi d’acqua tipici della Liguria, che dalle montagne scoscese piombano verso il mare: rigagnoli semiasciutti d’estate, torrenti impetuosi gonfiati dai primi nubifragi autunnali. Sul greto del Roja, tra banchi di sabbia e cespugli di sterpi, vedo centinaia di neri. Sono i profughi dall’Africa che campeggiano all’aperto, nell’attesa di tentare la traversata del confine nelle zone meno custodite, affidandosi ai «passeur» a pagamento.

Da qualche tempo questi profughi sono al centro di una nuova paura italiana. Si chiama Ius soli. È un termine latino, significa «diritto della terra», si distingue dallo Ius sanguinis. Il primo stabilisce che si è cittadini della terra in cui si nasce, il secondo lega la nazionalità al sangue cioè ai genitori o agli antenati. La riforma in discussione a Roma (da più di due anni) dovrebbe modificare il percorso verso la naturalizzazione, rendere un po’ meno difficile diventare cittadini italiani per chi è nato qui. Che c’entrano i profughi di Ventimiglia? Nessuno di loro è nato qui. Vedo qualche donna incinta, nella chiesa vicino al Roja, la parrocchia di Sant’Antonio alle Gianchette che ha aperto le porte ai rifugiati. Ma la legge in discussione in Italia pone limiti severi anche per chi nasce qui: almeno uno dei genitori deve avere avuto un regolare permesso di soggiorno da anni. Eppure il dibattito sullo Ius soli si mescola con l’allarme-profughi. D’altronde, qualcosa di analogo è accaduto anche nella mia America.

Lo Ius soli nella sua versione moderna è proprio un’invenzione americana. Lo è nel senso delle Americhe al plurale. Fu adottato in quasi tutte le aree del Nuovo Mondo, con un’applicazione molto estensiva della common law britannica, viste le particolari necessità di popolamento da parte dei coloni venuti dall’Europa. Ma è lo Ius soli degli Stati Uniti quello più rilevante, sia per le circostanze particolari della sua nascita, sia per i numeri dei cittadini Usa che diventano tali per il solo fatto di nascere qui, magari da genitori immigrati illegalmente. Si stima che oggi trecentomila diventino ogni anno cittadini degli Stati Uniti in questo modo, pur avendo genitori che potrebbero essere espulsi. Nell’era di Trump, è tollerabile un’applicazione senza limiti dello Ius soli? In tutti i paesi europei che hanno riformato le leggi su cittadinanza e naturalizzazione negli ultimi anni – sotto la pressione di nuove ondate migratorie – è prevalsa qualche forma di Ius soli «con limitazioni». Per esempio il requisito che almeno uno dei genitori abbia avuto un permesso di soggiorno regolare per un certo periodo. Nulla di simile esiste in America, per ora.

La storia dello Ius soli statunitense ha radici giuridiche, filosofiche e culturali nell’antichità classica, dalle regole ateniesi sulla cittadinanza all’editto di Caracalla nell’impero romano. Ma la ragione speficica per cui gli Stati Uniti adottano uno Ius soli «estremo», è legata alla piaga dello schiavismo. Dopo la Guerra civile e la vittoria dei nordisti, viene aggiunto alla Costituzione il 13esimo emendamento che abolisce e vieta la schiavitù. Ma gli Stati del Sud tentano con ogni mezzo d’impedire che i neri acquisiscano diritti veri. Una delle strategie usate è questa: il divieto per legge che un nero possa essere cittadino degli Stati Uniti. Ci vuole il Civil Rights Act del 1866, e soprattutto il 14esimo emendamento alla Costituzione del 1868, per risolvere definitivamente la questione. Tutto merito dei repubblicani: allora erano il partito di Abraham Lincoln, anti-schiavista.

Con il 14esimo emendamento entra nella legge fondamentale del Paese il principio per cui «tutte le persone nate negli Stati Uniti… sono cittadini degli Stati Uniti». Il principio è affermato in modo chiaro, totale, inequivocabile. Naturalmente il legislatore dell’Ottocento pensava solo agli afro-americani nati sul territorio nazionale. Non poteva porsi il problema dei figli di immigrati clandestini, per la semplice ragione che l’immigrazione era tutta legale. Nel 1868 chiunque poteva entrare negli Stati Uniti, se voleva. Solo in seguito arrivano leggi restrittive. Come ricorda lo storico Eric Foner (The Good Kind of American Exceptionalism, su «The Nation») le riforme che successivamente regolano l’afflusso dall’estero escludono via via, nell’ordine, «prostitute, poligami, pazzi, anarchici, infine l’intera popolazione della Cina».

Il Chinese Exclusion Act, adottato nel 1882 e abrogato solo durante la Seconda guerra mondiale, è il caso più importante di una restrizione che prende di mira in modo esplicito un’etnìa. Ce ne saranno altri, magari mascherati attraverso «quote nazionali» di visti. Ci vorranno le grandi riforme sociali di Lyndon Johnson a metà degli anni Sessanta per dare agli Stati Uniti il grado di apertura che conosciamo oggi, con le leggi odierne sulla Green Card, la facilità del processo di naturalizzazione (dopo cinque anni di Green Card o residenza permanente, scatta il diritto a chiedere la cittadinanza). Quelle che Trump ha promesso di rimettere in discussione, a cominciare dal suo Muslim Ban.

A fine Ottocento neppure la svolta anti-immigrati del Chinese Exclusion Act, fece scattare qualche ripensamento sullo Ius soli. C’erano nel 1882 almeno 50’000 figli di cinesi nati in America, ma nessuno tentò di negargli la cittadinanza. Il principio dello Ius soli era ormai entrato a far parte della cultura nazionale, come ha ricordato uno studioso della materia, l’ex viceministro della Giustizia di Bill Clinton, Walter Dellinger: «Dopo gli anglo-sassoni arrivarono gli immigranti tedeschi, poi gli ebrei tedeschi, poi altre nazionalità europee, infine i latinoamericani, e c’era questo fatto bellissimo che i figli nati qui erano indiscutibilmente, legittimamente americani: a differenza dello Ius sanguinis, qui non si guardava all’indietro, alle storie dei loro genitori». È quella che Foner ha definito «la versione migliore dell’eccezione americana».

Nella destra repubblicana oggi non manca la tentazione di cambiare regole. Due anni fa all’inizio della sua campagna elettorale Trump dichiarò: «Molti giuristi sostengono che il 14esimo emendamento non si applica ai figli di clandestini, agli anchor-baby». Questa immagine dei «bebè-àncora» non l’ha coniata lui, circolava da molti anni nel gergo della destra. Sarebbero le «àncore» che le mamme senza permesso di soggiorno lanciano sul territorio Usa, per potersi un giorno regolarizzare anche loro. I numeri sono grossi o piccoli a seconda dei punti di vista. Stime indipendenti indicano che ogni anno nascono negli Stati Uniti – e ne diventano automaticamente cittadini – oltre trecentomila figli di stranieri senza permesso di soggiorno. Non sono pochi, e tuttavia rappresentano solo l’8% di tutte le nascite. Se si guarda al totale della popolazione di nazionalità americana, è poco più dell’un per cento ad avere acquisito la cittadinanza per questa via «anomala». Inoltre l’immagine dell’àncora è una forzatura: il bambino che nasce americano deve aspettare il 21esimo anno di età per avviare una richiesta di Green Card a favore dei genitori.

È forse per queste ragioni che il tema dei «bebé-ancora» fa un’apparizione ciclicla, stagionale. Se ne parla solo in campagna elettorale. Nell’ultima, oltre a Trump anche altri candidati repubblicani (Ted Cruz, Rick Santorum, Lindsay Graham) proposero di cambiare lo Ius soli introducendo una restrizione che escluda i figli di immigrati illegali. Da quando Trump è alla Casa Bianca si è occupato di Muro col Messico e Muslim Ban ma non ha mai più citato la questione Ius soli. Una ricerca su Google col termine anchor baby rivela che l’affollamento di citazioni è di due anni fa, poi crolla.