Nell’articolo Il telelavoro non favorisce le donne (leggi «Azione» del 29 maggio 2023), prendendo spunto da studi condotti sullo smart working durante la pandemia, si metteva in luce che l’innovazione tecnologica non solo non attenua, ma rischia di amplificare il gender gap (ovvero il divario tra i generi, la sperequazione sociale e professionale esistente tra uomini e donne.) Lavorando da casa, infatti, la libertà di scelta delle madri lavoratrici tende a contrarsi ulteriormente e la maggiore fatica a cui la flessibilità spazio/tempo ci espone, soprattutto per le donne rischia di tradursi in un inasprimento di già gravi iniquità professionali. La responsabilità di attenuare queste iniquità va condivisa in modo organico tra lo Stato e i datori di lavoro, con politiche familiari e aziendali mirate.
Per la politica svizzera si tratta di prendere coscienza che l’obbligo costituzionale della parità di fatto è oggi amplificato dall’accumularsi di ragioni economiche, demografiche, di sviluppo sostenibile, di risposta alle aspettative delle nuove generazioni. Gli esempi di altri Paesi mostrano l’efficacia degli interventi volti ad equilibrare la distribuzione del carico di cura tra genitori e a rafforzare le strutture di accoglienza dell’infanzia. Azioni che, oltre a rispondere a bisogni contingenti, incidono sulla cultura dei ruoli e sull’autodeterminazione degli individui, a prescindere dal genere. Sono, entrambi, ambiti di particolare vulnerabilità per la Svizzera. Prendiamo i congedi per i genitori: siamo tra gli ultimi Paesi dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) a non aver introdotto quello parentale, né ci fanno onore le 14 e 2 settimane di congedo maternità e paternità.
Recentemente, su invito della Federazione Associazioni Femminili Ticino Plus (FAFT Plus), è stato presentato a Bellinzona il modello della Commissione Federale per le Questioni Familiari (COFF): 38 settimane (inclusi i congedi esistenti), di cui 15 ad uso esclusivo del padre e non trasferibili (il vincolo use it or lose it – lo usi oppure lo perdi – è funzionale al coinvolgimento dei padri) e 23 a disposizione della madre, che può trasferirne 7 al padre. A parte le settimane di divieto del lavoro per le neo mamme, con retribuzione al 100 per cento, tutte le altre sono remunerate all’80 per cento e fruibili fino ai 18 mesi del figlio. È una formula moderata, lontana dalla flessibilità raccomandata dall’Unione Europea (4 mesi di congedo ciascuno fino all’ottavo anno del figlio) e dalla media OCSE (54 settimane); eppure non trova consenso in politica, dove più profonda sembra la frattura generazionale nella concezione di politica familiare e dei ruoli genitoriali, anche perché l’opposizione sui costi appare inconsistente. Rispetto ai congedi attuali, i contributi IPG (indennità di perdita di guadagno) passerebbero dallo 0,5 per cento allo 0,9 per cento massimo. In mancanza di una norma federale, il rischio è la proliferazione di regolamenti e concorrenza tra Cantoni. Le statistiche dicono che non è il desiderio di avere figli ad essere cambiato nel tempo, quanto la possibilità di distribuire il carico domestico nella coppia, la disponibilità di strutture di custodia formale per i piccoli e lo stipendio della madre. I famosi «cervelli in fuga», maschi e femmine, potrebbero optare per Cantoni più generosi anche rispetto al mettere su famiglia.
Nel 60 per cento dei casi sono le donne a ridurre il tempo di lavoro per occuparsi dei figli ma, al contrario di quanto accade in Europa, non è condizione temporanea: la stragrande maggioranza continua a lavorare part-time tutta la vita. Un paradosso, se pensiamo che il 53 per cento dei laureati sono donne (contro il 17 di una generazione fa), dalle gravi ripercussioni economiche: il contributo medio delle madri lavoratrici al bilancio familiare non va oltre il 30 per cento e, nell’arco della vita, si cumulano differenze di genere che superano il 40 per cento del reddito e il 30 per cento della previdenza, molto più della media europea.
Un recente rapporto, frutto di un postulato che chiedeva di elaborare una strategia globale e un piano di misure per il reinserimento nel mondo del lavoro delle donne con figli, ha raccomandato di migliorare l’accessibilità economica delle strutture di accoglienza dell’infanzia, attualmente poche e costosissime. L’equazione è semplice: più asili nido a costi ragionevoli, meno sottoccupate, più partecipazione femminile al mondo del lavoro. Un segnale in questa direzione: mercoledì scorso il comitato dell’Iniziativa popolare sugli asili nido, guidato dal Partito Socialista, ha depositato in Cancelleria federale più delle 100 mila firme richieste. Lo scopo dell’iniziativa è quella di garantire a ogni bambino un posto in un asilo nido di qualità, a costi accessibili: «La partecipazione dei genitori non può eccedere il 10 per cento del loro reddito». Ricordiamo inoltre che anche le strategie federali «Parità 2030» e «Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile 2030» pongono molta enfasi su pari opportunità ed equilibrio vita-lavoro.
E che dire della disparità salariale, punta dell’iceberg di un sistema che disincentiva strutturalmente il lavoro femminile? Non voler intervenire sulla differenza salariale spiegata (di cui fa parte il malus della maternità, inclusa l’opzione obbligata del part-time) e non prevedere sanzioni per la parte non spiegata (la pura discriminazione) danno prova di scarsa determinazione politica nell’affrontare le sfide sistemiche delle diseguaglianze di genere, al di là delle dichiarazioni di intenti.
La cultura tradizionale dei ruoli incide molto sulle prassi del mercato del lavoro. Si pensi alla fatica degli uomini ad ottenere il tempo parziale e quanto stigma porti con sé; né stupisce che le dirigenti siano ancora meno del 36 per cento, visto che un recente sondaggio su scala globale rileva che, in Svizzera, il 29 per cento ritiene gli uomini più adatti a questo ruolo (2023 Gender Social Norms Index, United Nation Development Programme, 12 giugno 2023).
Tuttavia, le aziende sembrano più decise a rivoluzionare gli stereotipi e non è difficile comprenderne i motivi: la scarsità di manodopera qualificata, l’uscita dei baby boomer, la determinazione con cui le generazioni Z e Y perseguono un buon equilibrio privato-professionale, sono già sfide quotidiane e non temi astratti di consenso elettorale. Saper rispondere adeguatamente è già un vantaggio competitivo e i benefici si estendono oltre la capacità di attrarre e fidelizzare il personale; infatti, agli studi che da oltre 40 anni mostrano migliori risultati dei team misti, si sono aggiunte di recente le evidenze virtuose delle strategie di sviluppo sostenibile inclusivo e della preferenza che i consumatori esprimono verso i brand profilati in tale direzione.
L’adozione di misure di conciliabilità, in particolare, è parte centrale di ogni piano d’azione volto a garantire diversità, equità e inclusione e un numero crescente di aziende si sta orientando a rispondere ai bisogni del personale in modo non più standardizzato. I dubbi sul telelavoro, per esempio, potrebbero essere superati da un trend particolarmente promettente: il processo partecipativo nell’allestimento dei regolamenti aziendali, un investimento efficace per far emergere e rispondere a specifiche necessità (nella fattispecie di spazio, tempo, struttura), assicurando nel contempo la messa in circolo di informazioni propedeutiche al buon funzionamento dei flussi di lavoro. La buona notizia é che la curiosità che anima la riflessione e lo scambio di buone pratiche a livello globale non esclude affatto le aziende svizzere. L’auspicio è che anche la politica superi presto la sua proverbiale timidezza.