Colombia senza pace

Referendum: La maggioranza della popolazione ha respinto l’accordo raggiunto all’Avana fra il governo e le Farc. Ha prevalso la linea dell’ex presidente Uribe che paventava per il Paese il rischio del «castro-chavismo
/ 10.10.2016
di Angela Nocioni

A volte ritornano. E Alvaro Uribe è tornato, da trionfatore. L’ex presidente della repubblica, l’uomo più a destra che Bogotà ricordi nella sua storia politica recente, è il vincitore indiscusso del referendum in Colombia. Il referendum era stato indetto dall’attuale presidente Santos per far ratificare ai cittadini l’accordo di pace siglato, dopo una trattativa al cardiopalma, tra il suo governo e i capi guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) all’Avana. 

Le Farc sono una narcoguerriglia, un esercito informale dall’ideologia ultraveteromarxista, da più di cinquant’anni in guerra con lo Stato. Sono feroci, di una violenza confrontabile solo a quella dell’esercito regolare che li combatte facendo fare spesso il lavoro sporco a paramilitari di estrema destra, anch’essi finanziati a loro volta dal narcotraffico. All’ideologia rivoluzionaria delle Farc si è nel tempo affiancata, fin quasi a sostituirla, una molto più concreta narco-industria. Il bla bla rivoluzionario è ormai l’esoscheletro che protegge un gruppo di banditi, politicizzati spesso a forza. Molti dei soldati delle Farc sono analfabeti, alcuni presi e portati via di peso da villaggi rurali attraversati dalla guerriglia, non sanno nemmeno per cosa combattono e non saprebbero mai leggere il testo del referendum che li riguarda. 

Avendo controllato per decenni parti consistenti del territorio colombiano, coperto in vaste aree da piantagioni di coca, le Farc hanno creato una gigantesca rete di affari con i narcos, entrando in affari con loro. La guerra tra esercito e guerriglia è stata una delle più sanguinose del continente latinoamericano. Militarmente ormai le Farc sono da anni ridotte ai minimi termini, ricacciate nella selva, braccate dalle sofisticatissime armi dell’esercito colombiano (fornite insieme a strumenti di intelligence e addestratori dal Pentagono) e decimate dalle defezioni e dalle spie. 

Da anni sembrano sul punto di essere sconfitte per fame, ma mai del tutto. È difficile militarmente sconfiggere del tutto una guerriglia con mezzo secolo di vita e una storia radicata nel dna politico, per quanto insanguinato, di una nazione. La si può assediare, costringerla a ripiegare in angoli impervi, ma la sicurezza che non si riorganizzi in gruppo armato, da qualche parte, non c’è mai.

Ogni volta che si è tentata negli anni una soluzione per via politica del conflitto, l’unica che ragionevolmente possa garantire una tregua duratura che somigli a una pace, e si è avviata una trattativa, la mediazione è saltata. Spesso per contrasti interni alle Farc. Spesso perché l’ala militarista del governo, di cui Uribe è stato l’anima, si è adoperata perché saltasse. Ogni volta la mediazione si è arenata prima di arrivare a buon fine. Ogni volta, tranne l’ultima. 

Per riuscire a non far saltare il tavolo, stavolta si sono mosse non solo le diplomazie latinoamericane, ma, soprattutto, la diplomazia vaticana. Il segretario di stato Pietro Parolin e papa Francesco sono stati i propulsori e i registi, solo apparentemente muti, dell’avvio della trattativa, avvenuta poi fisicamente all’Avana, con padrone di casa Raul Castro, perché i capi delle Farc hanno preteso quella sede brandendo l’argomentazione della sicurezza per la loro incolumità personale e il presidente colombiano Santos, intelligentemente, gliel’ha accordata.

Santos non ha però saputo evitare che il risultato storico ottenuto, l’accordo iconograficamente sintetizzato nella stretta di mano tra il capo guerrigliero Timochenko e lui stesso, che prima di essere eletto come capo del governo era stato il ministro della Guerra di Uribe ed aveva ottenuto grandi risultati militari contro le Farc, fosse sottoposto a referendum. Sicuro che quello storico accordo piacesse alla stragrande maggioranza dei colombiani, ha tentato anzi di farlo diventare una sorta di plebiscito politico sulla sua persona. E ha perso.

L’affluenza alle urne (ha votato un cittadino su tre) è stata una delle più basse della storia delle consultazioni elettorali in Colombia, paese che ha già di suo una storia di alte percentuali di astensione. Il No all’accordo ha vinto per uno 0,5%. Anche se uno scarto così sottile tra Sì e No e con un’affluenza così scarsa è numericamente irrisorio, politicamente il risultato è rilevantissimo. Sancisce la sconfitta di Santos e la resurrezione di Uribe che ha arruolato per fare proselitismo politico la chiesa evangelica, insieme ai nemici di Parolin e Bergoglio che in America latina esistono e non sono pochi.

Uribe è stato abile nel diffondere la bugia che dietro gli accordi siglati all’Avana si nascondesse un’imminente ondata di misure contrarie alla difesa della proprietà privata e alla dignità delle forze militari. Molto efficace nel dipingere un improbabile futuro colombiano in mano ai chavisti (che sono con l’acqua alla gola a casa loro in Venezuela, figurarsi in Colombia). Ottima idea da parte sua è stata soprattutto presentare il No al referendum come un no alle Farc e non come un no alla pace.

Interessante notare che il Sì ha vinto nelle parti del Paese più massacrate dalla guerra. È il caso dei municipi assediati storicamente dai guerriglieri, come Cauca, Guaviare, Nariño, Caquetá, Antioquia, Vaupés, Putumayo, Meta e Chocó. A Boyayà, per esempio, dove nel maggio 2002 negli scontri con i paramilitari le Farc uccisero 79 persone che si erano rifugiate in una chiesa, il 94% ha votato per il Sì. 

Santos, la cui popolarità è scesa da tempo sotto il 20% stando ai sondaggi mentre quella di Uribe rimane intorno al 50% da quando ha lasciato la presidenza nel 2010, ha subito confermato il mantenimento del cessate il fuoco, e aperto al dialogo con Uribe, che ora lo potrà cuocere a fuoco lento con tutto l’agio di un ex presidente che non può formalmente candidarsi in prima persona, ma si appresta a farlo utilizzando un uomo di paglia della destra colombiana, non ha ancora scelto quale. Anche Timochenko, che all’anagrafe risulta chiamarsi Rodrigo Londono, si è dichiarato disponibile a non buttare tutto all’aria. Ma chissà se gli conviene.

Per capire il gioco delle parti in corso, però, e la quantità di insidie e doppie identità che si cela nella complessa partita sull’accordo di pace, può essere utile il seguente dettaglio. Pablo Catatumbo, uno dei capi delle Farc, uno dei più seguiti e dei più radicali, membro del Segretariato che è l’organo esecutivo della guerriglia, pochi giorni fa ha aperto una conferenza stampa con le seguenti parole: «Noi, Farc, abbiamo lottato per raggiungere questo accordo finale di pace, nonostante le resistenze del governo, per esempio, a parlare di modello economico. Quello che abbiamo davanti agli occhi è un accordo che offre strumenti per risolvere con mezzi democratici le nostre differenze e porre fine ad un conflitto lungo più di cinquant’anni».

Catatumbo ha detto: «Per noi questo accordo rappresenta una porta aperta per la gente che dovrà continuare a lottare e difendere il territorio in condizioni finalmente democratiche e favorevoli all’esercizio dell’opposizione» ricordando poi, e a ragione, che il paramilitarismo è «la maggior minaccia agli accordi raggiunti con il governo».

Ebbene, ad «Azione» risulta, per testimonianza diretta, che lo stesso Catatumbo, tempo fa, sprofondato in una conversazione a due all’Avana e ignaro di essere ascoltato, ha detto: «L’accordo ci viene imposto da Castro d’accordo con Timochenko, la pace non è fatta per niente, la stretta di mano tra Timochenko e Santos ci danneggia moltissimo perché si dice ormai in ambienti a noi vicini che le Farc stringono la mano di chi ha fatto uccidere i nostri». Il riferimento era ovviamente a Santos, che prima di candidarsi era ministro della Guerra di Uribe e ha combattuto contro le Farc.