Due populismi a confronto nel ballottaggio del 17 giugno per le presidenziali colombiane. Il candidato favorito è Ivan Duque, della destra uribista, il delfino dell’ex presidente Alvaro Uribe che rimane l’eterno capo della estrema destra colombiana anche se non si presenta personalmente. Duque ha avuto il 39% delle preferenze al primo turno. Lo sfidante è Gustavo Preto, ex sindaco di sinistra di Bogotà, ex senatore, con un passato (remoto) nel gruppo guerrigliero M19 poi trasformatosi in partito col quale Preto approdò prima in Parlamento e poi al governo della capitale. Preto si è fermato al 25%.
Entrambi promettono diretto rapporto con gli elettori saltando le forme di mediazione politica tradizionali, entrambi promettono di spendere soldi che non hanno a disposizione. Fondamentali per la vittoria dell’uno o dell’altro saranno i quattro milioni e mezzo di voti andati al primo turno al terzo incomodo, l’unico candidato non populista della contesa, il verde Sergio Fajardo. A lui è andata la maggior parte dei voti degli abitanti di Bogotà che, a sorpresa, non hanno votato in massa Preto nonostante il gran successo da lui riscosso come sindaco.
Nelle regioni più ricche e nelle grandi città Medellin e Cali, la preferenza è andata a Duque. Nelle regioni periferiche ha vinto Petro. Al primo turno ha partecipato il 53,3% dell’elettorato, un dato alto per un paese dove di solito l’astensione supera il 50%.
Questione centrale della campagna elettorale è stata la traduzione in pratica dei singoli punti previsti dall’accordo di pace con la guerriglia delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc). Questo è e resta il nodo centrale della discussione politica colombiana. Per la prima volta gli ex guerriglieri hanno preso parte ufficialmente alla contesa politica e si sono presentati con un loro partito: Forza alternativa rivoluzionaria comune, così da mantenere l’acronimo Farc e farlo comparire sulla scheda elettorale. Se lo sono giocato come un brand, scommettendo sulla efficacia del marchio, senza temere l’effetto boomerang di un nome che evoca ribellione in armi contro l’oppressione di latifondo e paramilitari di estrema destra, ma anche decenni di massacri.
La firma dell’accordo di pace del governo con le Farc, nel 2016, ha chiuso mezzo secolo di conflitto armato interno e ha reso possibile il disarmo di circa settemila guerriglieri, ma la pace è ancora lontana, soprattutto in alcune regioni rurali del Paese. Almeno mille dissidenti delle Farc non hanno accettato gli accordi. Altre organizzazioni armate legate alla criminalità organizzata li ignorano. Le trattative di pace con l’Esercito di liberazione nazionale (Eln), altro grande gruppo armato colombiano, sono in corso all’Avana dove è stato da pochi giorni riavviato il quinto ciclo di incontri al tavolo di mediazione tra guerriglieri e governo.
La Colombia sull’accordo resta spaccata a metà. Da una parte c’è una frazione dell’opinione pubblica formata dall’ex presidente Alvaro Uribe, acerrimo nemico della trattativa con le Farc, che ritiene ideologicamente sbagliato aver trattato con loro e che comunque contesta nel merito i singoli punti del testo firmato. Dall’altra ci sono tutti quelli schierati in difesa della posizione tenuta in merito dal governo Santos, anche quando si tratta di persone militanti nell’opposizione, che ritengono folle e suicida, nonché inefficace, perpetuare all’infinito la guerra militare contro la guerriglia, sostengono che «duecentomila morti possono bastare a capire che la via militare non funziona» e difendono l’accordo raggiunto e le mediazioni inevitabili lì contenute come unica soluzione possibile.
Petro scommette sulla possibilità di una difficilissima rimonta. Molto difficile per lui farcela. Conta sul miracolo dell’ultimo minuto. D’altra parte è un esperto di resurrezioni politiche. Dopo il 2014 ha astutamente capitalizzato la simpatia creata nei suoi confronti dalla battaglia legale condotta allora contro di lui dal presidente Santos, quando Petro era sindaco di Bogotà. Accusandolo di illiberalità per il modo in cui aveva sostituito l’azienda incaricata della raccolta della spazzatura, Santos aveva avallato al decisione di un giudice che consentiva la sua rimozione d’ufficio. Non aveva valutato, però, la reazione di quella parte di Bogotà che aveva votato per lui sindaco e si sentì ovviamente defraudata del voto. Un cittadino, Oscar Augusto Verano, ricorse alla giustizia lamentando la lesione del suo personale diritto a scegliere un candidato da votare e a veder rispettata la sua scelta, il Tribunale Superiore di Cundinamarca gli diede ragione e Santos si ritrovò Preto di nuovo sindaco e con un appoggio popolare accresciuto dalla disavventura. Su questo fortunatissimo precendente e sull’appoggio dei votanti di Fajardo, il candidato svantaggiato punta per una rimonta.