Clima, cambierà il vento?

COP 24 – Si apre il 3 dicembre a Katowice la nuova conferenza sul clima, in un contesto di dati sempre più allarmanti, che sembrano smuovere persino Washington
/ 03.12.2018
di Alfredo Venturi

Il nostro pianeta ha la febbre e la comunità internazionale cerca la giusta terapia in un contesto che non potrebbe essere più contraddittorio. Al sentimento di ansia che ormai dilaga nelle opinioni pubbliche, atterrite dai disastri climatici e dalle cupe prospettive delineate dalla scienza, si contrappongono lo scetticismo e i pregiudizi di chi, come il presidente Donald Trump, considera il surriscaldamento niente altro che una bufala. Il tema è sul tappeto ormai da un quarto di secolo, da quella conferenza di Rio de Janeiro che nel 1992 lanciò la Convenzione Onu sui cambiamenti climatici e le annuali Conferenze delle parti. Ma nonostante la crescente presa di coscienza della gravità del fenomeno e qualche marginale progresso la meta ambiziosa di Rio, ridurre in misura significativa le emissioni di gas a effetto serra e la deforestazione, appartiene ancora al regno dell’utopia.

In questi giorni si apre a Katowice, Polonia, la 24.esima Conferenza delle parti: COP 24. Mentre gli indicatori continuano a segnalare allarme rosso, l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di 1,5 °C rispetto ai valori pre-industriali sembra sfuggire di mano. Eppure la scienza parla chiaro: oltre quella soglia, che alle condizioni attuali verrebbe raggiunta nel 2030, fenomeni come il clima impazzito, lo scioglimento dei ghiacci, l’innalzamento del livello dei mari, possono diventare irreversibili. Oltre i 2°C, poi, la catastrofe sarebbe totale.

La formula tematica della COP 24 è «Cambiare insieme». Ma il lungo consulto al capezzale del pianeta febbricitante dimostra che su questa esigenza d’azione comune prevalgono gli egoismi nazionali. Troppe le defezioni rispetto agli obiettivi comuni fissati a livello negoziale. È bastato un avvicendamento alla Casa Bianca perché gli Stati Uniti, che condividono con la Cina il ruolo di massimi inquinatori, denunciassero il pur cauto programma elaborato a Parigi nel 2015, che fissava il limite invalicabile dei 2°C e quello auspicabile di 1,5°C, e dunque rifiutassero di applicare le misure necessarie per raggiungere l’obiettivo.

È vero che proprio nei giorni scorsi il quarto rapporto sul clima dell’amministrazione americana ha clamorosamente contraddetto il punto di vista di Trump elencando le pesanti conseguenze del fenomeno: disastri climatici a non finire, minacce per la salute, fine dell’impetuosa crescita economica che il successore di Barack Obama si vanta di avere assicurato agli Usa.

La reazione del presidente non si è fatta attendere. «Non ci credo», ha detto quando un giornalista lo ha interpellato sul rapporto del suo stesso governo. D’altra parte l’imprevedibile Trump non aveva escluso, dopo il rifiuto degli accordi di Parigi, la possibilità di un ripensamento purché il programma fosse drasticamente ritoccato. Al momento restano valide certe sue decisioni sul rilancio dei combustibili fossili, sulla costruzione di nuovi oleodotti, sulla riapertura di alcune miniere di carbone. In ogni caso il negazionismo trumpiano è ormai dilagato oltre le frontiere americane.

È dei giorni scorsi la decisione del governo australiano di respingere la raccomandazione dell’IPCC (comitato intergovernativo sul cambiamento climatico, formato dalle agenzie Onu per l’ambiente e la meteorologia) a proposito delle centrali a carbone. L’IPCC chiede che queste centrali, le più inquinanti per le massicce emissioni di gas a effetto serra, vengano chiuse in tutto il mondo entro la metà del secolo. Niente affatto, risponde Scott Morrison, primo ministro a Canberra: la nostra priorità è l’energia a buon mercato e il carbone fa proprio al caso nostro.

Del resto la Polonia, che ospita la conferenza chiamando a raccolta migliaia di delegati da tutto il mondo, è fra i paesi che producono energia con la più alta percentuale di carbone. La stessa Katowice è al centro di una densa area industriale storicamente alimentata da questo combustibile. Sembra un paradosso, ma proprio nell’imminenza della COP 24 Varsavia ha annunciato la costruzione, vicino ai confini con Bielorussia e Lituania, di una centrale a carbone da mille megawatt. Eppure Patricia Espinosa, segretaria generale della Convenzione, segnala che nonostante le molte defezioni l’applicazione degli accordi di Parigi comincia a dare i primi frutti. 

A Katowice si cercherà di completare le linee di attuazione che dovrebbero rendere quelle intese pienamente operative. Insomma si proverà ad andare avanti su un doppio binario: da una parte le misure per diminuire la produzione di fumi inquinanti, dall’altra quelle destinate ad assicurare l’assorbimento almeno parziale dei veleni in eccesso. A questo proposito si parla sia della riforestazione, sia di un procedimento ancora in fase sperimentale ma certamente destinato a dominare presto la scena: la raccolta e lo stoccaggio del carbonio.

Per vincere le tenaci resistenze ai programmi di risanamento dell’ambiente un argomento fortemente persuasivo potrebbe essere rappresentato dalla pressione migratoria. Fra le cause di questo fenomeno figurano certe conseguenze devastanti del cambiamento climatico sull’economia di molti paesi poveri, in particolare le ricorrenti siccità che mettono in ginocchio le attività agricole e dunque la produzione di cibo. Questo significa che il contrasto al deterioramento del clima potrebbe avere a medio termine effetti positivi sullo sviluppo di quei paesi, contenendo l’esodo altrimenti inarrestabile dei cosiddetti migranti economici. A questi effetti dovrebbe essere particolarmente sensibile proprio quel fronte conservatore che non si cura più di tanto del clima, ma teme come la peste l’«invasione» dei derelitti.