Cina-Taiwan, si aggrava il confronto

Mar cinese meridionale – Lo status politico dell’isola continua ad essere un nodo non risolto, fondamentale in ogni possibile strategia di contenimento della Cina da parte degli Stati Uniti
/ 26.11.2018
di Beniamino Natale

Gli Stati Uniti hanno ripreso la vendita di armi a Taiwan su vasta scala, la Cina ha risposto minacciando l’isola e intensificando la campagna internazionale per il suo isolamento. Dal canto loro i taiwanesi hanno espresso la loro opinione in modo piuttosto chiaro: tra i dieci referendum che sono stati recentemente proposti ai circa 19 milioni di elettori dell’isola c’è uno che ha provocato una rabbiosa reazione da parte di Pechino: quello, solo apparentemente innocuo, sul cambiamento del nome con il quale l’isola parteciperà alla prossima edizione delle Olimpiadi a Tokyo nel 2020, dall’attuale «Chinese Taipei» a «Taiwan».

Il referendum è stato lanciato da un comitato del quale fanno parte sia politici indipendentisti che esponenti della cosiddetta «società civile», tra cui Chi Cheng, la prima atleta taiwanese ad aver vinto una medaglia alle Olimpiadi (quelle del 1968 a Città del Messico).

«Dopo più di tre decenni di democrazia – ha affermato Chi – la maggior parte della gente ora pensa che il nostro nome sia “Taiwan” e che continuare ad usare “Chinese Taipei” nella partecipazione agli eventi olimpici, non rifletta veramente il fatto che rappresentiamo Taiwan e non la Cina». Yoshi Liu, portavoce del Team Taiwan Campaign for the 2020 Tokyo Olympics, ha spiegato: «vogliamo cambiare il cosiddetto modello olimpico che ha posto per tanto tempo una serie di restrizioni alla nostra partecipazione alle manifestazioni sportive internazionali». «Il problema di Taiwan riguarda la sovranità e l’integrità territoriale della Cina», ha replicato il ministro della Difesa cinese Wei Fenghe. «Se qualcuno vuole separare Taiwan dalla Cina – ha aggiunto – le Forze Armate cinesi prenderanno le misure necessarie a qualsiasi costo».

Taiwan fu ceduta dalla Cina al Giappone nel 1895 dopo la guerra tra i due paesi asiatici. Tornò sotto la sovranità cinese nel 1945, dopo la sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale. Nel 1947 le truppe del Kuomintang, il partito nazionalista che governava la Cina, uccisero migliaia di persone che manifestavano contro la dittatura che era istituita sull’isola. Due anni dopo, sconfitto sulla terraferma dai comunisti di Mao Zedong, fu lo stesso leader del Kuomintang, Chang Kai-Shek, a trasferirsi sull’isola con quello che era rimasto del suo esercito. Chang governò con un pugno di ferro che non aveva nulla da invidiare a quello usato da Mao a Pechino. La comunità internazionale, USA in testa, riconobbe il governo di Taiwan, che aveva assunto il nome di «Repubblica di Cina» (in opposizione alla Repubblica Popolare di Cina fondata da Mao) come entità sovrana su tutto il Paese. Una forzatura che durò fino al 1971 quando, dopo il riavvicinamento tra Cina e USA, la «Repubblica di Cina» fu espulsa dalle Nazioni Unite e il seggio cinese fu assegnato alla «Repubblica Popolare».

L’impasse diplomatica nella quale ci si trova oggi deriva da quelle decisioni. Allora sembrò «naturale» assegnare Taiwan alla Cina – che era una delle potenze vincitrici della guerra – togliendola allo sconfitto Giappone. La decisione fu presa sulla base dell’errata convinzione che i nazionalisti avrebbero ripreso il controllo di tutto il territorio cinese. Il riconoscimento come «unica Cina» della Repubblica Popolare fu deciso sulla base di un’altra errata convinzione, cioè quella che la Cina comunista, ora alleata degli USA nella Guerra fredda contro l’allora Unione Sovietica, si  sarebbe certamente democratizzata entrando nell’orbita americana.

Invece, mentre in Cina si rafforzava la dittatura del Partito Comunista, i successori di Chang Kai-shek iniziavano negli anni Ottanta il processo che ha portato alla creazione di istituzioni democratiche, con l’emergere di istituzioni indipendenti e di una serie di partiti – in primo luogo il Democratic Progressive Party (DPP), oggi al governo – concorrenti del Kuomintang. Da colonia di una potenza «nemica» che deve tornare alla «madrepatria», l’isola si è ora trasformata in una piccola democrazia minacciata da una grande potenza autoritaria.

Il confronto si è aggravato con la coincidenza temporale di tre avvenimenti: l’elezione alla presidenza di Taiwan di Tsai Ing-wen, che ha promesso di non forzare la situazione ma che non nasconde le sue simpatie indipendentiste; la stretta autoritaria realizzata dal presidente Xi Jinping in Cina, dove si sono rafforzate le tendenze nazionalistiche ed egemoniche con la rivendicazione della sovranità su tutto il Mar Cinese Meridionale; l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti.

Dopo un primo, breve periodo di «luna di miele» seguito al loro primo incontro nella residenza estiva di Trump, l’uomo forte americano e l’uomo forte cinese sono arrivati all’inevitabile scontro; in primo luogo sul commercio, ma anche sugli equilibri strategici nel Pacifico. I rapporti degli USA con Taiwan sono regolati dal Taiwan Relations Act, che fu varato contestualmente alla normalizzazione delle relazioni con Pechino e che obbliga Washington a proteggere l’isola in caso di attacco militare cinese. Le relazioni commerciali sono rimaste forti, quelle diplomatiche sono gestite da un ufficio «commerciale» che ha sede a Taipei. Sotto la gestione di Trump, gli USA hanno venduto per due volte armamenti sofisticati a Taiwan, abbandonando la politica di prudenza seguita dalle precedenti Amministrazioni e suscitando la reazione di Pechino. La freddezza delle relazioni tra le due superpotenze è emersa con chiarezza nell’ultimo incontro tra i capi delle diplomazie, l’americano Mike Pompeo e il cinese Wang Yi. Parlando all’inizio di ottobre a Washington i due diplomatici non hanno nascosto le divergenze sempre più ampie tra i loro governi.

Ecco come l’agenzia di stampa AGI ha riportato lo scambio sulla questione di Taiwan: «Gli USA (secondo Wang) hanno anche adottato azioni sulla questione di Taiwan che minano i diritti della Cina, e hanno prodotto critiche senza fondamento delle politiche interne ed esterne» di Pechino. «Sulle questioni che lei ha descritto», ha replicato Pompeo, «abbiamo un fondamentale disaccordo. Abbiamo grandi preoccupazioni per le azioni che la Cina ha intrapreso», ha proseguito il capo della diplomazia USA, «e non vedo l’ora di discutere ognuna di queste cose oggi, perché questa è una relazione incredibilmente importante». Lo scontro su Taiwan sta uscendo dall’ambito delle polemiche tra Washington e Pechino e presto interesserà una serie di organismi internazionali all’interno dei quali Taiwan continua ad essere rappresentata con nomi fantasiosi come «Chinese Taipei» nel caso del Comitato Olimpico Internazionale.

Un compromesso che ha funzionato fino a quando a sostenerlo erano proprio le parti interessate, vale a dire Pechino, Taipei e Washington. Ora che quell’equilibrio è rotto e la cosiddetta «questione di Taiwan», torna d’attualità. L’isola è davvero stata «sempre» parte della Cina, come afferma Pechino, oppure ha diritto a dichiararsi indipendente dato che lo è stata di fatto per quasi 60 anni, come sostengono gli indipendentisti? Domande difficili e scomode, alle quali la comunità internazionale si troverà presto a dover rispondere.