Cina e Pakistan si fanno avanti

I due Paesi non nascondono i loro interessi in Afghanistan mentre stringono accordi con i talebani e altri gruppi di jihadisti. Nel frattempo combattimenti e attentati dilaniano un’area abbandonata al suo destino
/ 26.07.2021
di Francesca Marino

«I cinesi sono i benvenuti. Se hanno fatto degli investimenti nel Paese assicureremo certamente la loro sicurezza. È molto importante per noi che stiano al sicuro... Siamo stati in Cina molte volte e abbiamo un’ottima relazione con il Governo cinese». Così parlò Suhail Shaheen, portavoce dei talebani, rilasciando un’intervista al «South China Morning Post». Aggiungendo che i talebani: «Non hanno intenzione di permettere ad alcun gruppo, incluso il Movimento islamico del Turkistan orientale (che combatte per la liberazione degli uiguri, ndr.), di operare in Afghanistan».

Le dichiarazioni di Shaheen facevano eco, curiosamente ma non troppo, alle dichiarazioni rilasciate un paio di giorni prima dal premier pakistano Imran Khan. Che ha pubblicamente dichiarato di credere ciecamente a Pechino riguardo al trattamento riservato agli uiguri. Secondo l’Imran-pensiero, le notizie di torture e lavaggio del cervello della minoranza musulmana cinese sono tutte falsità e calunnie messe in giro dall’Occidente e la Cina non soltanto ha creato un vero e proprio paradiso per i musulmani dissidenti ma può anche vantare un sistema di Governo molto più avanzato di qualunque democrazia: il partito unico. Quello stesso partito che ha praticamente colonizzato il Pakistan e i cui interessi convergono, per motivi diversi, con quelli di Islamabad in Afghanistan: i generali sognano da sempre la profondità strategica, Pechino ha in mente la Belt and road initiative, la Nuova via della seta.  E per entrambi l’Afghanistan è di vitale importanza.

Non è un segreto per nessuno che da anni la Cina parla direttamente con i talebani facendo accordi per un futuro ormai dietro l’angolo. Pechino è uno dei maggiori investitori stranieri in Afghanistan. Il Logar Aynak, il progetto di estrazione del rame, ad esempio, è finora il più grande investimento straniero nel Paese. Pechino investe in Afghanistan e cerca di controllare il Governo, qualunque Governo, per due ragioni principali: perché il Paese è geopoliticamente e strategicamente significativo come rotta di trasporto e per le potenziali fonti di energia, e perché teme che l’instabilità politica dell’Afghanistan possa rafforzare le attività separatiste musulmane uigure nello Xinjiang. A questo scopo i cinesi fanno da tempo accordi con i talebani ma, soprattutto, con Islamabad perché i vari gruppi gestiti e creati dall’Isis, i gruppi di jihadi di cui sopra, non forniscano aiuto, addestramento o sostegno (nemmeno morale) ai fratelli uiguri. Non solo. È in corso in Pakistan, da un po’ di tempo, una profilazione etnica e un controllo capillare degli uiguri residenti nella patria creata da Jinnah per tutti i musulmani del mondo.

E i funzionari di Pechino interrogano, assieme ai servizi segreti locali, i dissidenti di qualunque etnia prelevati dalla polizia e fatti scomparire. I cinesi stanno difatti collaborando attivamente alle investigazioni della polizia di Islamabad riguardo all’esplosione di un autobus carico di lavoratori cinesi nella regione di confine del Gilgit-Baltistan. Curiosamente, pochi giorni prima dell’esplosione, era circolato via social media un video che mostra una vecchia conoscenza dei servizi segreti, dell’esercito e della polizia pakistana: Habib ur Rehman, numero due dei «mujahidin del Gilgit Baltistan e Kohistan», uno di quei gruppi di «cattivi» talebani che, secondo la narrativa ufficiale, tanti problemi hanno causato al Pakistan. Rehman, evaso di prigione nel 2015, è da allora latitante. Ufficialmente. Perché il video lo mostra mentre, assieme a un nutrito gruppo di seguaci, blocca la Karakorum Highway per tenere una «corte di giustizia» in cui si sono discusse anche «questioni di politica interna, di politica estera e questioni religiose».

Habib ur Rehman dichiara anche candidamente di aver fatto un accordo con il Governo di Islamabad e con i servizi segreti. Dopo qualche giorno al direttore delle pubbliche relazioni dell’esercito, maggior generale Babar Iftikhar, riferendosi sia ai fatti del Gilgit-Baltistan che a un recente (fallito) presunto attentato ai danni di Mohammed Hafiz Saeed, «il terrorista più amato del Pakistan», ha dichiarato che «l’ondata di attentati che ha colpito il Pakistan è strettamente legata alla situazione in Afghanistan». E ha aggiunto: «Siccome abbiamo smantellato in Pakistan i campi terroristici, adesso la leadership di questi gruppi si trova in Afghanistan e opera con il sostegno dell’intelligence indiana».

Davvero? Proviamo a mettere assieme un po’ di fatti. Mentre a Doha e in altre sedi si dicuteva di «pace», in Pakistan i talebani afghani (ospitati e facilitati dall’esercito di Islamabad) raccoglievano donazioni «volontarie» sia nel Kpk che in Belucistan, così come i terroristi della Jaish-i-Mohammed (sempre sponsorizzati dall’esercito). A quanto pare il famoso campo di Balakot, così come altri campi di addestramento della JeM in Pakistan, aveva tra le altre cose il compito di fornire reclute ai talebani afghani. Così come di provvedere attentatori suicidi ben addestrati sia alla rete Haqqani che agli altri gruppi. I talebani raccoglievano fondi in maniera organizzata anche nelle province del Punjab e del Sindh. Pare inoltre che la Jaish-e-Mohammed abbia anche una base a Quetta che viene utilizzata per le sue operazioni afghane, svolte in gran parte a Ghazi via Chaman. In Afghanistan ha stabilito basi a Kandahar e nel nord della provincia di Helmand. E i quadri della JeM sono attualmente attivi nelle aree di Ghazni, Geelan, Helmand e Nangarhar dell’Afghanistan. In Kpk, sotto l’egida dell’Isis, è nato anche un nuovo gruppo, i Taliban-Khattak. Addestrato, secondo fonti locali, da membri della Jaish-e-Mohammed, dagli Haqqani e dagli stessi talebani, per esssere poi inviato in Afghanistan contro le truppe governative.

La novità, se di novità si può parlare, è che questi gruppi sono destinati a quanto pare non solo a combattere le truppe regolari ma anche, in caso di necessità, a combattere altri gruppi jihadisti, a cominciare dai talebani «regolari», quelli che trattavano in Qatar, tanto per capirci. Quegli stessi che qualche giorno fa hanno affidato al web l’ennesimo «messaggio di pace» in cui si dice in sostanza, mentre i combattimenti e gli attentati in Afghanistan diventano ogni giorno peggiori, che «l’Emirato islamico desidera fortemente una soluzione politica e adopererà ogni mezzo per ristabilire la sicurezza e la pace dentro a un sistema islamico».

Nei villaggi e nelle cittadine sono già comparsi i soliti manifesti e proclami che dichiarano fuorilegge la musica, l’assenza di barba, proibiscono alle donne di uscire da sole e a volto scoperto, e tutto il lugubre bagaglio del «sistema islamico». Nelle città, chi può fugge all’estero per paura di ritorsioni. Donne, giornalisti, attivisti e oppositori vengono ammazzati quasi ogni giorno. E il cerchio si chiude così com’era iniziato, la fine è uguale al principio: il Pakistan, con gli americani che mendicano una base militare e i cinesi che fanno piovere denaro nelle tasche di generali e politici, si conferma sempre più «il Paese più pericoloso del mondo», pedina chiave di uno scacchiere basato sull’unica arma davvero efficace che Islamabad ha a disposizione: i terroristi. Gestire l’internazionale del terrore ha assicurato dividendi negli ultimi venti anni e continuerà a farlo in futuro. Il resto sono soltanto parole.