Cina e America Latina, socie in affari

Espansionismo cinese – Pechino vende ma compra nello stesso tempo, questa la sua strategia per conquistare commercialmente una vasta porzione di mondo, oltre che ridurre lo spazio diplomatico di Taiwan
/ 03.06.2019
di Angela Nocioni

In controtendenza con il periodo d’oro per i candidati outsider, a Panama le elezioni presidenziali sono state vinte da un partito tradizionale, il Partido revolucionario democratico, centro-sinistra classico. Il nuovo presidente è Nico Cortizo e il 5 maggio ha vinto con due soli punti percentuali di distacco sul suo avversario Romulo Roux, di Cambio democratico, altro partito tradizionale della politica panamense. Gli sono stati provvidenziali, nel testa a testa con l’avversario, i voti delle zone rurali e indigene. Le città gli hanno votato contro.

Il risultato delle elezioni nel piccolo paese che divide l’Oceano Atlantico dal Pacifico, non riguarda solo i suoi 4 milioni di cittadini, perché il nuovo presidente sarà quello che nei prossimi cinque anni dovrà governare l’utilizzo della porta della Cina all’America centrale: il canale di Panama. Non solo milioni di dollari, quindi, ma anche e soprattutto una delle principali vie d’ingresso dell’espansionismo strategico cinese in questa parte di mondo.

Cina e Panama hanno formalmente allacciato relazioni diplomatiche nel giugno 2017. Nel dicembre scorso così il ministero degli esteri di Panama riassunse il senso dell’arrivo di Xi Jinping, primo presidente cinese a visitare il Paese centroamericano (con folta delegazione di uomini d’affari al seguito): «Vogliamo essere la porta di ingresso all’America latina della Cina, mettere a disposizione i nostri collegamenti con il resto della regione in modo che le compagnie cinesi possano fare base qui per distribuire i loro prodotti e servizi al mercato latinoamericano». E così Xi Ping ha definito l’America latina: «un’estensione naturale della Via della Seta» ossia della penetrazione cinese nelle aree economicamente interessanti del mondo. L’espansione cinese in America latina non serve a Pechino solo a conquistare commercialmente una vasta porzione di mondo, ma anche a ridurre lo spazio diplomatico di Taiwan. Solo 17 Paesi al momento non riconoscono Taiwan: 9 di essi si trovano in America latina.

La Going Global Strategy lanciata da Pechino nel 1999 prevede la promozione degli investimenti delle imprese cinesi all’estero attraverso l’utilizzo della montagna di valuta accumulata negli anni del boom commerciale cinese. Quella politica è tuttora in voga. Pechino immette miliardi di dollari tra Panama e la Patagonia in varie forme. Sessanta miliardi di dollari solo al Venezuela, per avere un’idea delle cifre, che danno, però, solo un’immagine ridotta della reale presenza cinese, perché la gran parte dei soldi arriva dopo una tappa preventiva in vari paradisi fiscali e sfugge quindi alle statistiche. Eppure, anche limitandosi a ciò che appare come ufficialmente proveniente da Pechino, non fila tutto liscio. La Cina presta facilmente dollari, con interessi altissimi e clausole spesso opache. Investe miliardi senza esitazioni. Ma ogni tanto il pentolone viene scoperchiato e ne escono indizi poco rassicuranti. 

In Messico, per dirne una, il progetto cinese di 4 miliardi di dollari per il primo treno a alta velocità del Paese, annunciato con grande enfasi dall’ex presidente messicano Peña Nieto è stato più volte cancellato perché risultò che all’appalto era stata fatta partecipare solo una ditta cinese, la quale aveva già subappaltato parte dei lavori a imprese considerate filogoverantive. 

La Cina compra in America latina e contemporaneamente vende, vende tantissimo. Nonostante le misure protezionistiche di alcuni Paesi, Argentina e Brasile soprattutto, il volume di importazione di prodotti cinesi nella regione negli ultimi dieci anni si è triplicato. È aumentato del 95% l’acciaio cinese importato nel continente: 1,9 milioni di tonnellate. In Venezuela, principale destinazione latinoamericana degli investimenti cinesi, Pechino finanzia il debito pubblico e si fa ripagare in petrolio. Caracas spedisce ogni giorno in Cina 460 mila barili per pagare un prestito, già evaporato, di 20 miliardi di dollari. Deve restituire altri 30 miliardi. 

La Eximbank e la Banca per lo sviluppo della Cina hanno finanziato gli investimenti nella regione latinoamericana più della Banca mondiale. Secondo i conti fatti dall’Università di Boston, la Cina ha speso oltre 102 miliardi di dollari in prestiti in America Latina solo nel periodo tra il 2005 e il 2013. Nei paesi andini, eccezion fatta per il Cile, che comunque alla Cina vende tantissimo, la mappatura delle risorse minerarie è sostanzialmente affidata a Pechino. La Cina è il principale acquirente di rame in Perù, secondo produttore al mondo. La compagnia di Stato China Minmetals, ha comprato per 5,8 miliardi di dollari Las Bambas, il giacimento di rame più grande del Perù, in grado da solo di soddisfare il 13% di fabbisogno cinese. Il 33% delle risorse minerarie peruviane è nelle mani della Cina.

È sempre Pechino ad estrarre e lavorare il litio boliviano, utile a mille usi tecnologici, anche alla fabbricazione di batterie per telefoni cellulari. Il progetto annunciato dal presidente Evo Morales è di rendere solo boliviana la lavorazione di quel tesoro prezioso nascosto dalle bellissime saline di Uyuni, per ora però senza soldi cinesi il litio rimane sepolto sotto il sale. È la Export Import Bank of China a finanziare la produzione di gas della Bolivia, fino a dieci anni fa controllata dal Brasile. La faccenda del gas boliviano racconta molto dei poteri reali in campo nell’economia del continente. Il grande atto politico di debutto compiuto dal primo governo di Evo Morales, nel 2007,  fu la nazionalizzazione del gas di cui il piccolo Paese andino è un grande produttore. I tempi e i modi della nazionalizzazione furono proposti a Morales dal suo vicepresidente, Alvaro Garcia Linera, sociologo marxista che cita Antonio Gramsci a memoria. L’esercito fu mandato a occupare i giacimenti e la nazionalizzazione fu fatta secondo il disegno di Garcia Linera.

La potenza imperialista in Bolivia però, per dirla come la dice Evo Morales, almeno per quanto riguarda il gas, non erano gli odiati «gringos», ma il Brasile dell’allora presidente Lula, grande alleato di Morales, senza l’appoggio del quale il primo presidente indio della Bolivia difficilmente sarebbe resistito in sella a lungo. Il 30% dei giacimenti di gas boliviani erano a quei tempi proprietà del Brasile che se ne serviva per fornire combustibile alla cintura industriale di San Paolo. Il tavolo del presidente brasiliano Lula da Silva è stato ingombrato per mesi dal contenzioso politico più delicato dell’intero continente: la rinegoziazione del prezzo del gas boliviano. Il Brasile è stato di fatto proprietario della ricchezza boliviana in idrocarburi. Senza i soldi brasiliani in Bolivia non avrebbero prodotto nulla i due principali impianti locali di gas: i giacimenti di San Antonio e San Alberto. Sotto il suo controllo stava l’intero processo di distribuzione del gas. 

Nelle sue mani erano i gasdotti che trasportano combustibile all’Argentina e a San Paolo. Erano sue le due imprese di raffinazione boliviane e anche le due grandi aziende di distribuzione di combustibile per automobili. Lula non gradì lo schieramento di militari boliviani nei vecchi impianti di Petrobras (l’impresa pubblica del petrolio brasiliano) e solo lui sa quanto gli costò accettare le nuove condizioni di acquisto degli idrocarburi boliviani che consentivano a Morales di andare ripetendo in tv: «Il colonialismo è finito». Molti anni dopo quel clamoroso atto politico di nazionalizzazione che segnò l’inizio di una nuova fase politica in Bolivia, l’industria del gas continua ad essere in mani straniere. Non più brasiliane, ma cinesi. È Pechino che finanzia l’estrazione del prezioso idrocarburo sul quale la Bolivia galleggia. È Pechino a prestare, e non gratis, i milioni di dollari che servono per far funzionare gli impianti. 

Affari di scarso volume, ma di grandi prospettive, Xi Jinping li fa anche a Cuba. Trattative sono in corso per rafforzare la presenza cinese sull’isola, approfittando della legge d’apertura agli investimenti esteri. Il principale interesse cinese è il Mariel, il grande porto dell’Avana rimesso a nuovo da capitale brasiliano con apporto di liquidità cinese. In corso d’opera è pure l’ampliamento dell’industria cinese del fotovoltaico nella provincia di Pinar del Rio. La Cina è il secondo partner commerciale di Cuba, preceduto solo dal Venezuela. Gigantesco ovviamente, non foss’altro che per le dimensioni dei due Paesi, il volume d’affari cinesi in Brasile. Il boom economico brasiliano degli ultimi anni del secondo governo Lula, periodo d’oro che ha avuto il suo apice tra il 2009 e il 2010, è stato soprattutto un boom di consumi: beni di scarsa qualità venduti a basso costo e prodotti in Cina. Pechino ha inondato di merce scadente il mercato brasiliano e l’ha venduta guadagnando miliardi. Nel frattempo, vendendo, comprava. L’affare più succulento per gli investimenti cinesi in Brasile è lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio al largo di Rio de Janeiro. 

Pechino, infine, è il secondo socio commerciale di Buenos Aires. È cinese la seconda impresa di idrocarburi del Paese, la China National Offshore Oil Company (Cnocc). Il 30% delle vendite di prodotti alimentari a Buenos Aires avviene nei supermercati cinesi, i famosi «chinos». Vent’anni fa c’erano ancora i «bodegones» spagnoli, sacchi di aringhe, olive in barile e prosciutti appesi nei retrobottega. Oggi invece la spesa si fa dai cinesi e i «bodegones» sono diventati ristorantini per buongustai. Tutta la tecnologia che si assembla nelle industrie hi tech della Tierra del fuego, la Silicon Valley argentina, è fatta di pezzi cinesi.