Anche i bambini vivono in un limbo, senza scuola né prospettive

Anche Mohammed è scappato dal-l’Afghanistan, due anni fa. Ha attraversato l’Iran e la Turchia, poi ha provato tre volte a imbarcarsi per la Grecia. Quando finalmente è riuscito ad arrivare a Lesbos ha chiesto asilo per sé, sua moglie e le due figlie piccole. È scappato dalle minacce dei talebani. Talebani che, lo ricordiamo, dal 15 agosto 2021 sono al potere in Afghanistan (con quali conseguenze lo spiega Francesca Marino a pagina 33). «Lavoravo come autista per le organizzazioni umanitarie a Kabul. Un giorno i talebani hanno bussato alla mia porta e mi hanno detto: se non smetti di lavorare per gli europei e gli americani sei un uomo morto. Era un avvertimento, il passo successivo sarebbe stato rapirmi o uccidermi. Allora ho venduto tutto quello che avevo e sono partito». Sono due anni, adesso, che aspetta risposte alla sua richiesta di protezione umanitaria. «Sono due anni che le mie bambine non vanno a scuola», racconta. «E la nostra richiesta d’asilo è stata già rigettata due volte. Nessuno sa che ne sarà di noi». Anche la loro vita è nel limbo.

«Ci sono persone che seguiamo che aspettano una risposta anche da tre anni», dichiara Laure Joachim di Medici senza frontiere. «Con l’aggravante, rispetto a prima, di una radicale limitazione delle libertà personali dei richiedenti l’asilo. Secondo le nuove procedure, infatti, possono uscire dai nuovi campi chiusi se hanno appuntamenti medici o legali, ma solo dopo aver presentato una lettera che lo dimostri e dopo che questo documento è stato vagliato da chi vigila l’accesso al campo. È lo stesso per tutti: adulti, bambini, donne incinte». Un approccio alla migrazione che tende a umiliare rifugiati e richiedenti l’asilo invece di cercare di estendere i loro diritti.


«Ci trattano come animali in gabbia»

Reportage dal nuovo campo profughi di Moria, in Grecia, dove le persone migranti vivono ancora confinate in condizioni terribili
/ 06.12.2021
di Francesca Mannocchi

Era l’aprile del 2016 quando papa Francesco si recò in visita a Lesbos. Non voleva portare solo la sua vicinanza a parole, ma anche la sua presenza fisica alle migliaia di richiedenti l’asilo che avevano raggiunto l’isola greca dell’Egeo, nella speranza di raggiungere l’Europa. In quell’occasione il pontefice ricordò i morti in mare, «le vittime di viaggi disumani sottoposte alle angherie di vili aguzzini» e ammonì i Governi europei. «Non basta limitarsi a inseguire l’emergenza del momento», disse. «Occorre sviluppare politiche di ampio respiro». Oggi, 5 anni dopo, Bergoglio torna in Grecia e a Lesbos, dove tutto è cambiato nella forma però poco nella sostanza.

Ricordare Moria, per Soraya Shahab, è un dolore che le strozza le parole in gola. «Non avevamo elettricità, né coperte, niente di niente. Per scaldarci dovevamo accendere un fuoco, all’aperto, con la legna che trovavamo sulle colline. Abbiamo sofferto il freddo, a volte la fame. La situazione era terribile e molto umiliante, soprattutto per noi donne». Soraya oggi ha 19 anni, ne aveva 15 quando è arrivata sulle coste di Lesbos con la sua famiglia: padre, madre e quattro sorelle. Erano partiti da Izmir, in Turchia, come migliaia di altri migranti che dal 2015 hanno raggiunto l’Europa attraverso la rotta balcanica. La sua è una famiglia tagica, in fuga dall’Afghanistan perché nella provincia dove viveva, Ghazni, i combattimenti stavano uccidendo troppi giovani. «Mio padre voleva per noi un futuro migliore», afferma Soraya. «Non poteva immaginare che arrivando in Europa avremmo dovuto dormire per anni in un campo, senza bagni, né medicine, né elettricità». Senza un tetto. Soraya e la sua famiglia – 7 persone – hanno vissuto in due piccole tende. Quei ricordi sono per lei e sua madre una fatica e un dolore. Erano lì, all’aperto, anche l’8 settembre 2020, quando un incendio doloso ha distrutto l’hotspot di Moria, le tende nella collina circostante, e messo in fuga, lasciandole senza case né tende, circa 12 mila persone.

Moria era uno dei centri di identificazione e registrazione dei migranti creati sulle isole greche dopo l’accordo siglato nel 2016 tra Ue e Turchia. L’accordo, tuttora in vigore, prevede che chiunque arrivi in Grecia dalla Turchia senza requisiti chiari per l’asilo debba essere espulso, riportato in Turchia o nei Paesi di origine. Dal punto di vista numerico la strategia europea ha funzionato: a Lesbo nel 2017 è arrivata una media di 2500 persone al mese, molto meno rispetto ai 10 mila arrivati in un solo giorno nel pieno della crisi dell’autunno 2015. Ma le persone arrivate sulle isole greche di Chios, Leros, Samos e Kos – oltre a Lesbo ovviamente – si sono per anni ritrovate bloccate dalla lentezza e dalla complessità di una procedura di asilo che li condanna a fermarsi nell’isola finché le pratiche non siano state elaborate. Elaborazione che può durare mesi, anche anni. Nato sulla struttura di una base militare per ospitare 1000 persone, Moria è arrivata ad ospitarne anche 12 mila, sparse in tutte le colline circostanti, come quella in cui viveva Soraya con la sua famiglia. Fino all’incendio dell’8 settembre dello scorso anno.

«Abbiamo avuto paura di morire», ricorda la ragazza mentre guarda il mare insieme a sua madre Leila. «Abbiamo appena fatto in tempo a prendere uno zaino e scappare via. Poi è iniziato un altro limbo per noi. Per due settimane abbiamo dormito in strada, aspettando di capire cosa ne sarebbe stato di noi. Sapevamo che non volevamo vivere ancora in una tenda, ma nessuno ci dava risposte». La situazione è andata avanti per 15 giorni, finché il Governo greco ha deciso di spostare tutti gli sfollati in un altro campo. Mai più Moria, questa era stata la promessa fatta dalle autorità di Atene dopo l’incendio. Mai più Moria avevano ribadito i vertici europei. Eppure la soluzione che presentano oggi le isole greche non sembra aver migliorato la condizione di vita delle persone migranti. Il Governo conservatore di Kyriakos Mitsotakis lo scorso anno ha promesso un nuovo inizio nella politica greca per i rifugiati, impegnandosi a chiudere i campi sovraffollati come Moria. Ha anche ricevuto 300 milioni di euro dall’Ue per la costruzione di nuovi campi e l’ammodernamento di quelli vecchi. Sono strutture chiuse, circondate da filo spinato, controllate da telecamere a circuito chiuso e presidiate da forze dell’ordine.

«La situazione è cambiata molto dopo l’incendio», osserva Laure Joachim, la responsabile delle attività mediche presso la Clinica di salute mentale di Medici senza frontiere (Msf) a Mitilene, Lesbo. «Ci sono meno persone sull’isola perché i più vulnerabili sono stati spostati sulla terraferma, ad Atene, ma le condizioni di vita non sono diverse da prima. Non c’è abbastanza elettricità, alcune tende sono coperte di plastica in una zona che in inverno è colpita da venti gelidi, il campo è circondato da filo spinato, non ci sono sistemi di riscaldamento e nemmeno i bagni e le docce sono totalmente funzionanti». Le condizioni del nuovo campo sono terribili, sottolinea Joachim. «Per questo lo chiamiamo Moria 2.0, perché è la copia della vecchia Moria ma a differenza di prima è pensata per nascondere le persone migranti, tenerle lontane dai centri, dalle città. È in atto una nuova tendenza, cioè far sì che i migranti restino confinati nei campi, senza alcun contatto con le comunità locali».

È metà pomeriggio. Soraya e sua madre guardano il mare. Sono fuori dal campo per le tre ore settimanali che sono loro concesse dalle nuove procedure. Sono state sedute nel parco di Mitilene, poi hanno passeggiato lungo le rive. Soraya vorrebbe diventare una scienziata, studiare. «Come gli altri», dice. Ripete questa formula molte volte. «Come gli altri». Però, continua, «non ci lasciano uscire, i greci non vogliono che ci facciamo vedere in giro. Vogliono tenerci lontano dalle altre persone e non vogliono che le persone abbiamo notizie sulle condizioni di vita all’interno dei nuovi campi. Dietro quel filo spinato ci sentiamo trattati come animali in gabbia».