Ovunque i dati di febbraio sull’inflazione erano attesi con una certa preoccupazione. Si dava per certa una conferma, e magari anche un’accentuazione, di una tendenza già evidente nel mese di gennaio e, in alcuni paesi, già dalla fine dello scorso anno. Lo scoppio della guerra in Ucraina ha ulteriormente acuito i timori di aumenti dei prezzi, cui si potrebbe però aggiungere un rallentamento dell’economia, generando così il fenomeno della stagflazione, cioè di un aumento dei prezzi, accompagnato da un rallentamento della congiuntura.
Per il momento i prezzi a fine febbraio non hanno però ancora subito pienamente gli effetti della guerra in Ucraina e delle sue conseguenze sulle varie economie. In Svizzera, i prezzi in febbraio sono aumentati comunque dello 0,7% rispetto al mese di gennaio, generando quindi un tasso di rincaro annuo del 2,2% (in gennaio eravamo all’1,6%).
L’eurozona era ormai già avviata a superare il 5% e a fine febbraio registrava un aumento medio del 5,8% su base annua. Dal canto loro, gli Stati Uniti erano già saliti a vertici che non si registravano più dal 1982 e hanno confermato un tasso di rincaro del 7,5%. Ma, come detto, la guerra in Ucraina sta radicalmente cambiando una situazione mondiale che dava già segni di tensione dall’inizio dell’anno. Significativo, per esempio, il fatto che in febbraio, su base annuale, in Svizzera i prezzi dei prodotti indigeni sono aumentati dell’1,3%, mentre quelli dei prodotti importati sono aumentati del 4,9%!
Il principale responsabile di questo aumento è il prezzo dei carburanti, in particolare del petrolio e del gas. Due prodotti che saranno determinanti tanto per l’evoluzione dei prezzi, quanto per quella della congiuntura nei prossimi mesi. Intanto si sono già viste le ripercussioni immediate sui mercati valutari. Il franco e anche il dollaro hanno visto salire le loro quotazioni, mentre altre monete hanno subito forti ribassi. Il tonfo più grave lo ha logicamente subito il rublo, mentre l’euro è sceso alla parità con il franco svizzero. Questo scenario si ripeterà (e probabilmente si aggraverà) a dipendenza degli avvenimenti che caratterizzeranno la guerra in Ucraina e le reazioni occidentali (leggi sanzioni) contro la Russia. Sul piano economico le sanzioni politiche potrebbero, infatti, avere anche un effetto boomerang nei paesi che le mettono in atto.
L’Europa (e anche gli Stati Uniti) sono però in gran parte dipendenti dal gas russo. Un rallentamento delle forniture potrebbe provocare un aumento (del resto già in atto) dei prezzi e anche una diminuzione della produzione, soprattutto in Europa. Non dimentichiamo che la Russia è un importante produttore ed esportatore di altre materie come alluminio, palladio, platino e rame, per citare solo le principali. D’altro canto, anche l’Ucraina è un importante esportatore di grano, di concimi, di semilavorati e importanti componenti. Le varie economie occidentali stavano del resto già soffrendo di difficoltà di approvvigionamento.
La tendenza all’aumento dei prezzi verrà quindi rinforzata dall’inevitabile aumento dei costi di produzione e – magari a causa delle sanzioni – anche da un rallentamento della produzione di molti beni importanti. Questo proprio in un momento in cui i bilanci pubblici di molti paesi sono già appesantiti dalle spese dovute all’epidemia di Covid. Spese che stanno aumentando, proprio a causa della crisi russo-ucraina, sul piano degli armamenti e delle misure di difesa militare, ma anche economica.
In sostanza si stanno vedendo oggi problemi che sembravano essere stati risolti dalla globalizzazione, cioè dalla ripartizione internazionale del lavoro e dal commercio mondiale. Si è creato invece un grosso problema che si dovrà tentare di risolvere al più presto, se non altro per evitare che alla stagflazione, che già si affaccia, si aggiunga un periodo lungo di crisi economica che colpirebbe il mondo intero.
Ne sono coscienti anche le varie banche nazionali che si vedono costrette a rinviare la soluzione dei problemi creati dall’indebitamento provocato dai sostegni all’economia tramite l’acquisto di titoli e tassi d’interesse vicini a zero. È evidente che questa politica non è più compatibile con tassi di inflazione in forte aumento. Le banche centrali sono però confrontate con un nuovo dilemma: sostenere un’economia che rallenta, ma nel contempo combattere l’inflazione crescente. Una situazione già vissuta negli anni Settanta, ma senza la pericolosa minaccia di una guerra su un intero continente.