Chi vince in Venezuela?

Stallo – Il Paese continua ad avere due presidenti: Maduro ostaggio degli alti comandi militari e Gaidó che non riesce a convincere i vertici delle forze armate. Mentre permane il blocco chavista degli aiuti umanitari americani
/ 04.03.2019
di Angela Nocioni

È in drammatico stallo la crisi venezuelana. I carichi di cibo e farmaci di provenienza statunitense destinati alla popolazione dall’opposizione antichavista rimangono accatastati nei depositi alla frontiera perché il regime di Caracas ne impedisce l’accesso. La Croce rossa, rispettando la sua necessità di rimanere organizzazione neutrale, si rifiuta di farsi carico della loro distribuzione perché non partecipa a missioni politiche e questa indubbiamente lo è. La prova di forza per tentare, nonostante il divieto chavista, di far entrare i carichi con le insegne della Usaid non ha avuto buon esito: secondo notizie impossibili da verificare a causa dell’isolamento della comunità indigena in cui sono avvenuti gli scontri del 23 febbraio che avrebbero lasciato a terra 4 morti, il numero delle vittime sarebbe di almeno 25 persone uccise.

Il Venezuela continua intanto ad avere due mezzi presidenti: Nicolás Maduro, il capo del governo rieletto l’anno scorso in votazioni considerate illegittime dalla comunità internazionale con l’eccezione di Russia, Cina, Turchia, Bolivia, Cuba e Nicaragua, e Juan Guaidó, il trentacinquenne presidente di turno dell’Assemblea nazionale (il legittimo parlamento esautorato dal regime) che il 23 gennaio scorso si è autoproclamato presidente ad interim con l’obiettivo dichiarato di condurre la transizione fino alle elezioni e che ha l’appoggio della stragrande maggioranza della comunità internazionale – soprattutto l’ingombrante benedizione dell’Amministrazione Trump che gli ha messo a disposizione i soldi dei depositi americani del regime venezuelano bloccati dalle sanzioni statunitensi – ma non ha in mano lo Stato. Guaidó non può far funzionare nulla della macchina statale qualora volesse e non ha il comando delle forze armate.

L’emergenza sociale nel frattempo cresce. Continua l’esodo di chi può permettersi di scappare all’estero. Chi rimane scopre giorno dopo giorno che alla scuola dei figli mancano gli insegnanti perché, alla spicciolata, se ne stanno andando tutti, che in ospedale è inutile andare perché non ci sono nemmeno le garze, che nei negozi i prodotti arrivano col contagocce e in ordine bizzarramente imprevedibile: a volte solo carta igienica, a volte solo farina.

Caracas è una metropoli solitamente caotica sospesa in una stasi surreale. I trasporti pubblici sono quasi completamente paralizzati, quelli privati sono complicati dal fatto che entro breve la benzina finirà (in provincia è già introvabile da tempo). Finirà perché, paradossalmente, il Venezuela che galleggia sul petrolio e ha fatto dell’oro nero la sua pressoché unica industria, dipende dagli Stati Uniti per la benzina. Esporta nelle raffinerie del Texas il combustibile che, raffinato, poi ricompra. Le sanzioni dell’Amministrazione Trump non hanno bloccato né l’acquisto né la lavorazione del petrolio venezuelano, altrimenti quelle raffinerie si sarebbero fermate con conseguenti ricadute sul piano interno, ma hanno impedito la vendita di benzina a Maduro. Quindi tra un po’ si andrà a piedi.

Per contrastare l’offensiva dell’opposizione Maduro ha inondato la capitale di casse Clap, le casse di prodotti basici distribuiti di solito nei quartieri più poveri. Annuncia un imminente arrivo di derrate alimentari da Mosca. Ma intanto molte persone sono ridotte alla fame. Gli ospedali sono completamente privi di farmaci essenziali. In una delle capitali tradizionalmente più ricche d’America si muore per banalissime infezioni ai denti perché gli antibiotici sono introvabili.

Maduro non è in grado di governare né di resistere a un assedio politico internazionale così pressante, se si mantiene tale. Ma al momento nemmeno cade. È ostaggio degli alti comandi militari solo formalmente ai suoi ordini, ciascuno dei quali sta valutando se e come cedere alle pressioni statunitensi e in cambio di quali rassicurazioni sul mantenimento non solo della libertà personale, ma anche di quali porzioni di profitto degli infiniti traffici in cui è da anni ormai stata travolta la rivoluzione chavista.

Nessuno si fida più di nessuno nel palazzo di Miraflores. I consiglieri cubani che hanno in mano l’intelligence e la cabina di comando politica del regime non si fidano dei generali venezuelani che, a loro volta, diffidano di loro. L’opposizione riunita attorno a Juan Guaidó, d’altra parte, ha dalla sua l’esasperazione di gran parte della popolazione che non si traduce necessariamente in appoggio politico, il sostegno della comunità internazionale che non è unanime nel giudizio sull’affidabilità delle intenzioni di Donald Trump nella crisi e sul ruolo della destra colombiana (ora al governo della Colombia) e una valanga di soldi che, però, non sa bene come usare.

Se il regime è fintamente compatto attorno a Maduro perché ciascuno dei suoi componenti teme per la propria libertà personale e per la sopravvivenza dei propri traffici, l’opposizione è unita attorno a Guaidó anche se non tutti vogliono concedere a lui lo spazio politico sufficiente a preparare la sua candidatura alle elezioni presidenziali che si dovranno pur celebrare indipendentemente dalla sorte di Maduro.

Il capo di Guaidó, il quarantasettenne Leopoldo López, per esempio, di regalare al suo ex delfino lo scettro di candidato antichavista al quale ha lavorato per una vita non ha nessuna intenzione. López ha dovuto far posto a Guaidó perché è ai domiciliari, detenuto politico del regime, e non ha il ruolo istituzionale necessario a giustificare agli occhi del mondo un’autocandidatura all’interim verso le elezioni, non essendo a differenza di Guaidó presidente del parlamento che al momento è l’unica istituzione eletta legittimamente nel Paese. Ma a regalare al suo giovane allievo il ruolo a cui lavora da vent’anni non ci pensa nemmeno.

È stato lui, con un paio di altri dirigenti dell’opposizione venezuelana in esilio a Bogotà, a ideare la spallata a Maduro utilizzando abilmente tutte le condizioni politiche favorevoli di questa fase: l’esistenza dell’amministrazione Trump, il momento di grazia dell’uribismo (ossia del mondo di estrema destra che ruota attorno all’ex presidente colombiano Alvaro Uribe, ex paramilitari compresi) e la caduta di tutti gli alleati del chavismo in America latina tranne la Bolivia, Cuba e il Nicaragua. È stata la moglie di López, l’attivista Lilian Tintori, a gestire negli ultimi anni, mentre lui era prima nel carcere di Ramo Verde e poi ai domiciliari, i rapporti con Washington (più volte ricevuta alla Casa Bianca), con i senatori repubblicani eletti in Florida, con l’ex presidente Uribe in Colombia, con il presidente Macri in Argentina e con tutti quelli in Europa disposti a credere che lei sia non solo l’esponente della estrema destra dell’opposizione antichavista, ma la credibile rappresentante dell’estesa opposizione al regime.

In questo provvisorio equilibrio tra due blocchi nemici apparentemente compatti, Caracas è attonita in attesa degli eventi. Guarda il cantante pop Luis Fonsi cantare «Despacito», il tormentone pop del momento, in un megashow pro-Guaidó che teme manovrato da Trump, Uribe e il non proprio rassicurante neopresidente brasiliano Bolsonaro, vede Maduro cacciare dal palazzo presidenziale una troupe invitata per un’intervista rea di avergli posto domande non concordate prima. E non riesce a trovare un’aspirina nemmeno al mercato nero dove, lo scorso settimana, una scatola di paracetamolo costava l’equivalente di tre salari minimi mensili.