Chi vince e chi perde in Siria

Scenari – Con il disimpegno Usa nel Kurdistan siriano, Mosca diventa nuovo arbitro della partita che si gioca nella regione. I rischi non mancano, se si trasformerà in una guerra fra turchi e persiani (entrambi suoi alleati)
/ 21.10.2019
di Anna Zafesova

I militari americani accolgono quelli russi a Manbij, gli mostrano le caserme che stanno lasciando e, citando le parole di un anonimo altolocato funzionario del Pentagono a «Newsweek», «li assistono nell’orientarsi rapidamente nelle zone più pericolose grazie alla loro lunga esperienza sul terreno». Un passaggio di consegne che ha un grande valore simbolico, impossibile fino a pochi giorni fa, e che spinge un coro di commentatori internazionali a consegnare a Vladimir Putin il titolo di nuovo padrone del grande gioco nel Medio Oriente. 

Nelle ore in cui i mezzi blindati con il tricolore russo occupavano le caserme e le strade presidiate finora dagli americani, il presidente russo è volato a Riad, nella prima visita in Arabia Saudita dopo 12 anni, a firmare contratti e protocolli di intenti con il suo concorrente strategico nel mercato petrolifero. E intanto Tayyip Recep Erdogan è stato invitato nei prossimi giorni a Mosca, dopo la visita ad Ankara del vicepresidente statunitense Mike Pence e del segretario di Stato Mike Pompeo, in un negoziato triangolato sui limiti dell’offensiva turca e, in un certo senso, sui nuovi confini di un nuovo pezzo di Medio Oriente.

Un ribaltamento dello scenario sorprendente, che però è stato preparato in lunghi negoziati iniziati almeno un anno fa. «Avevamo avvertito i curdi che gli americani li avrebbero scaricati», ha rivelato l’ambasciatore russo presso l’Unione Europea Vladimir Chizhov all’agenzia Tass. Già nel novembre 2018 i curdi avevano aperto un canale di trattativa sia con il governo di Damasco che con i suoi protettori russi, come hanno confermato esponenti americani, russi e curdi all’Associated Press.

Una delegazione curda era volata a Mosca, dove era già presente una missione di altolocati esponenti della sicurezza turca, per discutere – a quanto pare senza esito – le dimensioni della «fascia di sicurezza» che i turchi avrebbero voluto creare lungo il confine siriano. La stessa delegazione di curdi, guidata da un leader delle milizie, si sarebbe poi spostata, secondo la stampa araba, a Damasco, per incontrare il capo dell’intelligence siriana e alti ranghi dei militari russi.

Questi incontri hanno avuto luogo ancora prima che, nel dicembre dello scorso anno, Donald Trump annunciasse l’intenzione di ritirare le sue truppe dalla Siria. In seguito, racconta il dirigente curdo Ilham Ahmed, a Mosca è stato proposto un piano di undici punti per negoziare con Damasco, che prevedeva un’autonomia curda in cambio del riconoscimento dell’integrità territoriale della Siria e dell’inclusione delle milizie nell’esercito di Assad. Una mossa che i curdi descrivono come una «polizza di assicurazione» contro i turchi dopo il ritiro degli americani, anche se ammettono che avrebbero preferito continuare a trattare con Washington, ma si sono resi conto che sarebbe stato «poco saggio» continuare a mettere tutte le uova nel paniere di Trump.

Quando Trump ha annunciato, il 6 ottobre scorso, di ritirare le sue truppe dal nord-est della Siria, i curdi sapevano già a quale porta bussare. Il rappresentante speciale del Cremlino per la Siria Alexandr Lavrentiev nega un consenso preventivo di Mosca all’operazione lanciata da Erdogan, ma dal comunicato ufficiale sulla telefonata tra il presidente turco e quello russo, la sera del 15 ottobre, non emerge né una sorpresa, né tanto meno una condanna di Putin. Il capo del Cremlino si limita a chiedere a Erdogan di stare attento alle conseguenze umanitarie e a non scontrarsi con le truppe siriane.

La Russia occupa quindi il vuoto lasciato dagli Stati Uniti, e si pone come il broker principale del Medio Oriente, avendo un dialogo aperto – con vari gradi di partnership – con tutti gli attori principali, da Damasco ad Ankara a Teheran. E proprio questo multilateralismo contiene rischi impossibili da prevedere. Dal teatro degli scontri arrivano già notizie dei Sukhoi russi che hanno bloccato gli F-16 turchi, in una sorta di no-fly zone di fatto instaurata dai russi, e si parla di piccoli scontri tra militari russi e quelli di Ankara.

Se anche esiste un accordo sulla spartizione delle sfere d’influenza – dove Mosca guadagna dal consolidamento del suo alleato di Damasco e dalla conquista di un ex alleato americano come i curdi – in caso di scontro diretto tra siriani e turchi Putin non potrà restare a guardare, e entrambi i partner russi, Assad ed Erdogan, non sono esattamente malleabili. 

L’Iran, l’altro sponsor della Siria, ha molti interessi opposti a quelli russi, e vede con sospetto il desiderio di Putin di avvicinarsi di più ai rivali religiosi, politici e petroliferi di Riad. Il politologo Alexey Malashenko, uno dei massimi esperti russi del mondo musulmano, parla della possibilità di una «guerra di tutti contro tutti» dagli esiti imprevedibili, dove il Cremlino spesso deve combattere «più per una presenza che per una vera influenza», e dove gli interessi sono spesso contrapposti. Mosca ha con la Turchia grossi commerci, progetti infrastrutturali, un turismo di massa e la vendita di armi, tra cui i famigerati missili antiaerei S-400. Assad, al contrario, è un buco nel bilancio del Cremlino, considerato finora necessario soltanto al fine di sfidare gli americani. 

Ma con la ritirata di Trump – che curiosamente viene dettata dalle stesse ragioni di consenso elettorale che nel 2015, dopo il fallimento dell’offensiva nel Donbass, hanno spinto Putin all’intervento militare in Siria – Mosca non solo occupa il vuoto lasciato dagli Stati Uniti, ma ne eredita anche tutti i dossier problematici, con molti meno mezzi militari, economici e politici.