Chi ha ucciso Kim Jong-nam?

Spy story – Era il fratellastro maggiore del leader nordcoreano Kim Jong-un, costretto a respirare una dose letale di gas nervino, una delle sostanze chimiche più pericolose del mondo
/ 06.03.2017
di Giulia Pompili

Sono quasi le nove del mattino di un lunedì qualunque di febbraio, all’aeroporto di Kuala Lumpur. Lo scalo della capitale della Malaysia è uno dei più trafficati del mondo, perché situato in una posizione strategica a cinquanta chilometri a sud di Kuala Lumpur nel distretto del business malay, Sepang. Alle nove del mattino di lunedì l’aeroporto è gremito di persone, e nell’area adiacente al banco dei check-in si aggira un uomo piuttosto anonimo, vestito con jeans, giacca turchese e t-shirt blu, indossata su un fisico in sovrappeso, uno zainetto sulle spalle. Viene ripreso dalle telecamere di sorveglianza mentre alza la testa a cercare lo schermo delle partenze, e poi prosegue oltre, in attesa di tornare a casa. Ma saranno gli ultimi minuti della sua vita. Improvvisamente viene aggredito alle spalle. C’è una donna che lo afferra e gli copre la bocca con quello che sembra essere un panno, mentre un’altra, che gli compare davanti, forse spruzza qualcosa sul suo viso. Nel giro di pochi secondi le due donne scompaiono. L’uomo sembra spaventato, confuso, cammina veloce verso il banco delle autorità aeroportuali. Morirà venti minuti dopo, sull’ambulanza, mentre viene trasportato in ospedale.

Il nome sul suo passaporto è Kim Chol, ma non è la sua vera identità. Nel giro di ventiquattro ore le autorità malay scoprono che a essere ucciso, nel mezzo dello scalo aeroportuale più grande del Paese, in pieno giorno, mentre era in attesa di imbarcarsi su un volo Air Asia diretto a Macao, non è un uomo qualunque. Si tratta di Kim Jong-nam, fratellastro del leader nordcoreano Kim Jong-un, l’uomo che dal 18 dicembre del 2011, cioè dalla morte del padre, guida la Corea del nord. Come sempre negli ultimi sedici anni, il primogenito del Caro Leader Kim Jong-il viaggiava con un passaporto con una falsa identità. Si nascondeva dal regime di Pyongyang da quando, nel 2001, era stato allontanato definitivamente, e in circostanze mai del tutto chiarite, dalla corsa alla leadership del Paese più isolato del mondo.

Le autorità sudcoreane le chiamano «code di lucertola». Sono le unità, gli agenti, le risorse che possono essere sacrificate dopo un’azione d’intelligence. E infatti il giorno successivo all’omicidio, dopo solo poche ore di indagini, la polizia malaysiana arresta le due donne sospettate di aver ucciso il fratello del leader nordcoreano. La prima è ripresa dalle telecamere di sorveglianza dell’aeroporto mentre aspetta un taxi che la porterà in un hotel poco distante. Indossa una maglietta bianca con la scritta LOL, l’acronimo per «laughing out loud», un’espressione che suona particolarmente spaventosa viste le conseguenze della sua azione. La donna si chiama Doan Thi Huong, è di nazionalità vietnamita, e secondo quanto ufficializzato dalle numerose conferenze stampa rilasciate dalle autorità malaysiane, oltre che dalle ricostruzioni dei media, lavorerebbe in un outlet di Kuala Lumpur da poco tempo. Ha ventotto anni, e ha studiato alla facoltà di Farmacia di Hanoi.

L’altra donna arrestata è Siti Aishah, originaria di Giacarta. La polizia la trova in possesso di due passaporti diversi, entrambi indonesiani. La definiscono una ragazza giovane e ingenua, arrivata in Malaysia in cerca di lavoro. E in effetti qualcosa le accomuna. Entrambe spiegano alle autorità di essere state raggirate da alcune persone: a tutte e due era stato promesso un ruolo in uno show televisivo, credevano di partecipare a uno scherzo, una candid camera, non pensavano certo di dover ammazzare il fratellastro di uno degli uomini considerati dall’intelligence americana tra i più pericolosi del mondo. La loro versione è ancora sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori. 

Insieme alle due donne, la polizia malay identifica quattro nordcoreani, nel frattempo scappati in Corea del Nord dopo un lungo viaggio attraverso Giacarta e San Pietroburgo. Ma riescono a fermare un cittadino nordcoreano, Ri Jong Chol, sul quale però non pendono ancora capi d’accusa formali.

Passano cinque giorni prima di capire cosa ha ucciso Kim Jong-nam. Nel frattempo il suo corpo è custodito nella sala delle autopsie dell’ospedale di Putrajaya, mentre a Seul si susseguono riunioni d’emergenza e le consultazioni con i servizi segreti: chi ha ucciso Kim Jong-nam? Dopo poche ore dall’incidente, tutti – America, Giappone, Corea del sud – dichiarano di avere un sospetto più che fondato: l’ordine dell’omicidio è arrivato direttamente da Pyongyang. Del resto, Kim Jong-nam era da tempo sotto la protezione cinese, e nel 2012, in un libro-intervista pubblicato dal giornalista del «Tokyo Shimbun» Yoji Gomi, si era espresso criticamente nei confronti del regime: «È destinato a durare ancora per poco. Senza le riforme la Corea del Nord collasserà», e poi: «Una terza generazione alla successione del potere è senza precedenti e in totale contraddizione con il socialismo a cui si ispira».

Nel 2001 Kim Jong-nam era finito sui giornali internazionali per essere stato fermato all’aeroporto di Narita, nella capitale giapponese. Era accompagnato dalla famiglia, e tutti viaggiavano con passaporti falsi. Lo fermarono poco prima di uscire dall’aeroporto, e lui dichiarò di essere partito per andare a visitare Disneyland. Prima dell’incidente di Tokyo sembrava essere lui il predestinato, l’uomo che avrebbe dovuto sostituire il padre Kim Jong-il dopo la sua morte, godeva di titoli onorifici e ruoli che lo avrebbero traghettato facilmente a capo dell’establishment di Pyongayng. 

Perché era il primogenito, Kim Jong-nam, ma era nato da una relazione che Kim Jong-il aveva tenuto nascosta per molti anni. Kim Jong-il aveva avuto un figlio da Song Hye-rim, quella che è considerata il primo amore del Caro Leader, una donna che era già molto famosa in Corea del nord tra gli anni Sessanta e Settanta, perché era un’attrice di successo. Ma Song era sposata, e fu costretta a divorziare per entrare nelle grazie dell’allora leader di Pyongyang, Kim Il-Sung. Lentamente, fu allontanata dalla vita pubblica di Pyongyang. Morì nel 2002 a Mosca, da sola, in un esilio de facto. Sembra che ad avvertire la polizia di frontiera di Tokyo durante il tentato viaggio a Disneyland di Kim Jong-nam, nel lontano 2001, furono proprio i suoi fratellastri. Un tradimento orchestrato per metterlo fuori dai giochi, e consegnare il posto di comando a Kim Jong-chul. Ma poi anche quest’ultimo cadde in disgrazia: il famoso chef giapponese personale di Kim Jong-il, Kenji Fujimoto, rivelò in un libro che Kim Jong-chul era considerato «troppo effeminato» per fare il leader. Nel 2015 Jong-chul fu visto a Londra al concerto del famoso chitarrista Eric Clapton, quando ormai al potere era salito Kim Jong-un, il piccolo della famiglia.

L’attuale leader cerca ancora di consolidare il suo potere, e oltre alle costanti minacce nei confronti di Corea del sud e America, attraverso test atomici e missilistici, ha già dimostrato di essere in grado di sacrificare i suoi stessi parenti: nel 2013 lo zio Chang Song-taek, cognato del Caro Leader, uno dei più alti in grado nella catena di comando di Pyongyang, fu arrestato e giustiziato per ordine diretto di Kim Jong-un. Forse vedeva nel navigato zio una minaccia all’accentramento del potere su di sé. Forse anche il fratellastro maggiore, Kim Jong-nam, era una minaccia.

È morto in venti minuti dopo l’attacco, tra atroci sofferenze, ha detto il capo della polizia malay Khalid Abu Bakar dopo la pubblicazione dei risultati dell’autopsia. A uccidere Kim Jong-nam è stata una sostanza chiamata VX, un agente nervino classificato dalle Nazioni unite come arma di distruzione di massa e vietato nel 1993. Le due donne che ora subiranno un processo in Malaysia, dopo aver avvicinato il fratellastro del leader nordcoreano, lo hanno costretto a respirare una delle armi chimiche più pericolose del mondo. «Sapevano cosa stavano facendo, o almeno conoscevano la procedura», ha detto la polizia, «perché subito dopo l’attacco sono corse a lavarsi le mani».

Mentre la Corea del Nord continua a negare ogni accusa, l’assassinio di Kim Jong-nam e tutta la spy story che ha generato, è un punto di non ritorno nei rapporti di Pyongyang con il resto del mondo.