Chi guiderà l’Europa?

Il dopo Merkel – Se la risposta fino a poco tempo fa era la Germania, oggi non si vede una leadership in grado di farlo
/ 26.02.2018
di Lucio Caracciolo

Fino alla scorso autunno la risposta a questa domanda chi guida l’Europa?  era ovvia: la Germania. Angela Merkel era l’alfa e l’omega del panorama politico continentale. Il Regno Unito aveva stabilito di mettersi fuori da una comunità nella quale non era mai davvero entrato. La Francia stava appena cominciando a ridipingere la sua facciata, grazie al volto nuovo e intraprendente di Emmanuel Macron. L’Italia, in teoria terza potenza dell’Ue priva del contrappeso britannico, era e resta impigliata nelle debolezze strutturali del suo sistema politico e istituzionale.

Oggi alla domanda non è più facile rispondere in modo netto. La lunga crisi politica seguita alle elezioni tedesche, comunque debba risolversi – Grande Coalizione (con il 53% dei voti...) CDU-CSU-SPD o governo di minoranza democristiano impegnato a cercar voti al Bundestag su ogni legge – segna comunque l’inizio del tramonto di Merkel, leader ormai sempre meno autorevole e apparentemente affaticata.

Sicché le teorie sulla egemonia o «semiegemonia» tedesca sono oggi da rivedere. Stanno emergendo i limiti strutturali di questa Germania, incapace di esercitare la funzione di coordinamento e di guida che spetta a chiunque si pretenda capo. Mentre riaffiorano le tendenze al solipsismo: si inclina a considerare solo i propri interessi, a rinchiudersi su se stessi, senza troppa voglia di affrontare le grandi sfide, dall’immigrazione al rilancio degli investimenti, dal rapporto sempre più logorato con gli Stati Uniti alla guerra in Ucraina.

Quel che soprattutto manca è una strategia. Dopo la sconfitta nelle due guerre mondiali, le élite tedesche sono state «rieducate» dai vincitori, specie dagli americani: non c’è bisogno che voi pensiate, lo facciamo noi per voi. Risultato: ancora oggi da Berlino non viene fuori uno straccio di proposta su quale debba essere il futuro dell’Europa. Il «weiter so», «avanti così», con cui la Merkel ha strappato una mezza vittoria elettorale che sa di sconfitta, può forse valere per la Germania, certo non per l’insieme comunitario. Il quale, per continuare ad esistere, e per contare domani qualcosa nel mondo, deve dotarsi di un progetto. Ciò che finora si è sempre rifiutato di produrre: Stato federale, confederazione o cos’altro? E fra chi? Entro quali confini?

In assenza di leadership, continuare così vuol dire accentuare due crisi contestuali, che mettono in questione il futuro delle nostre democrazie: quella dell’Unione Europea e quella degli Stati nazionali che la compongono.

È di moda affermare che l’Ue si sta rinazionalizzando. La Commissione è un pallido rifugio burocratico senza prestigio e di assai modesta efficacia, del Parlamento europeo si sono perse le tracce. Quel poco che si riesce a decidere, o a decidere di non decidere, è affidato al Consiglio europeo, ovvero ai leader degli Stati membri, impegnati a difendere i propri interessi nazionali, com’è normale che sia per chi deve essere eletto da una constituency nazionale. Tutto vero. Quel che si tende a non vedere, o a sottovalutare, è la contemporanea crisi degli Stati nazionali. E il nesso fra i due problemi.

Stiamo dimenticando che il Brexit in realtà è stato un voto inglese, non scozzese né londinese: esso ha esaltato la frammentazione interna al Regno Unito mentre ha aperto la strada alla sua uscita dall’Unione Europea. Inoltre, la Spagna vive una crisi esistenziale, con la sua più importante regione, la Catalogna, commissariata da Madrid nel silenzio più totale delle istituzioni comunitarie e degli altri paesi dell’Ue, timorosi di suscitare i separatismi silenti che covano al loro interno. La Francia di Macron, che a molti pare il redentore dell’Europa, è alle prese fra l’altro – Nuova Caledonia a parte – con la Corsica, dove autonomisti e indipendentisti hanno vinto insieme le ultime elezioni. La visita del presidente francese ad Ajaccio si è risolta in un fiasco, in un non-dialogo con i dirigenti corsi. In diversi altri paesi regioni e comunità locali mettono in questione il potere dei rispettivi centri – ad esempio nella stessa Germania la Baviera, dove un sondaggio della scorsa estate segnala un terzo dei bavaresi disposti all’indipendenza – e delle classi politiche nazionali, mai così impopolari.

Sarebbe ingiusto caricare la Germania della responsabilità intera di questa doppia crisi. Certo mai come oggi tornano in mente le classiche definizioni che la vogliono troppo grande per integrarsi nella famiglia europea e troppo piccola per guidarla.

Sono passati più di tre anni da quando il presidente Joachim Gauck, seguito poi dal ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier (oggi presidente della Repubblica) e dalla responsabile della Difesa, Ursula von der Leyen, hanno cercato di avviare un dibattito pubblico sulla necessità per la Germania di assumersi le responsabilità geopolitiche che competono a una potenza economica del suo rango. Finora, poco più che retorica. Anche la tanto reclamizzata riforma della Bundeswehr, che vorrebbe portare lo strumento militare nazionale all’altezza di un paese di così ragguardevoli dimensioni, stenta a produrre risultati.

A entrare in crisi è quindi lo stesso sistema politico tedesco, incapace di produrre una coalizione forte e di esprimere un successore credibile all’ormai logora Merkel. Inoltre, la Bundesrepublik non può permettersi di relegare quasi un quarto del suo elettorato fuori dell’arco costituzionale, visto che Sinistra e Alternativa per la Germania non sono considerate degne di partecipare al governo. Attenzione: quando Berlino ha la febbre, il problema ci riguarda tutti.