Sono più di 100 i popoli nativi detti «incontattati» nell’Amazzonia del Brasile, piccoli gruppi di individui che vivono isolati nei loro territori, determinati a evitare ogni contatto con il resto del mondo. Ad Araribóia, nello stato di Maranhão, abbiamo vissuto per alcuni giorni in un villaggio con i «guardiani» Guajajara, che pattugliano la selva catturando coloni e taglialegna abusivi per poi consegnarli alla polizia federale. Ci hanno raccontato che proteggono gli Awà, cacciatori nomadi, i quali usano le funi di vite per scalare gli alberi e danno fuoco alla resina per farsi luce. Negli ultimi anni diversi «guardiani», sui quali pendono taglie di molti dollari, sono stati uccisi dalla mafia del legno, criminali interessati a vendere quello di altissima qualità sui mercati internazionali. I Waimiri Atroari invece, un’altra popolazione indigena che vive nel Roraima, Stato settentrionale del Brasile, preservano la vita degli ultimi 100 superstiti dei Pirititi, etnie che entrando in contatto con l’uomo bianco, come è accaduto ad altri prima di loro, morirebbero inevitabilmente di morbillo e influenza.
Sono i sopravvissuti – che rischiano di estinguersi – di quello che era definito «il polmone verde della Terra», i custodi dell’universo della foresta Amazzonica e della sua biodiversità. Uno studio dell’Onu stima che ogni due settimane una lingua indigena muore e, delle circa 7’600 lingue parlate in tutto il mondo, 2’680 lingue indigene sono in pericolo. Con la loro scomparsa si perdono idiomi unici, ma anche culture antiche e conoscenze secolari, patrimoni dell’umanità, come è successo di recente in Rondônia, sempre in Brasile, con la morte de «l’indio do buraco», letteralmente «l’indigeno della buca». Era un uomo che viveva nella sua isola verde Tunaru, circondato da grandi allevamenti di bestiame e piantagioni di soia, in un territorio devastato dalla deforestazione, minacciato dalle potenti lobbies delle industrie agricole e dal mondo occidentale a caccia delle ultime risorse in quelle latitudini da sempre terra di conquista. Rimasto da solo dopo aver visto morire il suo popolo, minacciato già dagli anni ’70, perduti anche gli ultimi amici e famigliari, da 26 anni coltivava mais, manioca, mangiava papaie e banane, continuava a costruire capanne di paglia, così come scavava grandi buche profonde due metri dove piantava nel terreno bastoni acuminati al fine di catturare animali selvatici di passaggio, ma anche per proteggersi da attacchi esterni.
L’hanno trovato il 23 agosto scorso gli uomini della Funai, l’organizzazione statale che tutela e difende i popoli indigeni, sdraiato esanime su un cuscino di piume che aveva allestito lui stesso, cosciente che gli era rimasto poco tempo da vivere. Lui, come altri popoli, sono riusciti a salvarsi grazie alle Ordinanze di protezione territoriale che il governo Bolsonaro – in carica dal 2019 – vorrebbe cancellare per fare spazio ad allevamenti intensivi, attività minerarie, diboscamento. Questo non è ancora successo anche grazie alla campagna di sensibilizzazione di Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni (www.survivalinternational.org). «Nella politica pubblica brasiliana le Ordinanze di protezione territoriale sono uno strumento all’avanguardia che si può utilizzare velocemente per tutelare le vite e i diritti territoriali dei popoli incontattati», ha affermato Fabrício Amorim dell’Osservatorio dei popoli indigeni isolati. «Eliminarle significherebbe lo sterminio di popoli indigeni, o di alcuni loro gruppi, senza che ci sia stato neppure il tempo di riconoscerne l’esistenza per garantirne i diritti». Ridurrebbe al silenzio vite poco conosciute e impoverirebbe l’umanità intera. «Per questo è essenziale rafforzare questi strumenti, iniziare a demarcare le aree da proteggere e sfrattare tutti gli invasori».
Fiona Watson, direttrice della ricerca di Survival International, è molto scossa. Visitò la zona dove viveva «l’indigeno della buca» nel 2005. Si spostava in continuazione nel piccolo appezzamento di foresta in cui viveva, vide uno dei suoi nascondigli fatti di foglie e una palma che aveva abbattuto per mangiarne il cuore. Nella zona c’erano zucche per conservare l’acqua, noci essiccate, il suo orto traboccava di manioca e granoturco. Probabilmente andava a raccogliere i frutti maturi di notte, protetto dall’oscurità. «Era sempre in fuga, sempre impaurito», ricorda. Se si fossero avvicinati troppo avrebbe lanciato frecce d’avvertimento. «L’anno precedente aveva ferito Tunio, uno che lavora per la Funai». Ci confessa che prova una grande tristezza: «Per me l’uomo della buca è un simbolo, l’atto finale di un autentico genocidio. Non riesco nemmeno a immaginare come sia stato per lui vivere solo, con i ricordi del massacro del suo popolo. Ma credo sia stato anche un esempio straordinario di coraggio, perché è riuscito a vivere in modo autosufficiente nella foresta, cacciando e coltivando frutta e verdura». Per Watson stiamo perdendo parte della nostra diversità umana e la sua morte è un campanello d’allarme. «Dobbiamo fare tutto il possibile per prevenire i genocidi silenziosi e nascosti di altre tribù incontattate che stanno difendendo le loro foreste contro attacchi e intrusioni sempre più violenti, sia in Brasile sia altrove nel mondo».
Il 2 ottobre prossimo si terranno le elezioni presidenziali in Brasile. Lo scontro sarà molto aspro tra Lula da Silva e il presidente in carica Jair Bolsonaro. Secondo molti esperti, l’esito sarà fondamentale per il destino dei popoli indigeni minacciati dalle politiche di quest’ultimo. Durante il suo mandato, infatti, Bolsonaro ha incoraggiato l’invasione dei territori, le attività illecite di taglialegna e cercatori d’oro, per i quali pensa a una legge che consenta estrazioni su vasta scala. Nel frattempo ha ostacolato la Funai e l’agenzia per l’ambiente Ibama, intende aprire le terre delle tribù «incontattate», sostiene la proposta di legge del «Marco temporal» (limite temporale) la quale stabilisce che i popoli indigeni che al 5 ottobre 1988 – giorno in cui fu promulgata la Costituzione brasiliana – non abitavano fisicamente sulle loro terre, non hanno più alcun diritto a viverci.
Una sua vittoria sarebbe drammatica per il destino dei popoli indigeni brasiliani e per lo stato della foresta amazzonica, perché – affermano diverse organizzazioni ambientaliste – c’è un rapporto evidente tra le sue politiche e la crescente deforestazione. Bolsonaro nega la questione dei «popoli incontattati», ma negava anche il Covid, che ha seminato morte nel paese, tanto che la Commissione parlamentare che aveva l’obiettivo di verificare la gestione della pandemia l’ha accusato di 11 capi d’imputazione, tra i quali epidemia colposa, falsificazione di documenti, promozione di false cure, crimini contro l’umanità, boicottaggio di misure sanitarie preventive, corruzione e sperimentazioni sugli indigeni per testare l’immunità di gregge.