Chi è davvero in salvo?

Nelle aree siriane e turche martoriate dal terremoto la guerra, la povertà e i cataclismi sono di casa
/ 13.02.2023
di Romina Borla

Un piccolino senza vita avvolto da una coperta rossa. Il suo volto non si vede, solo quello pietrificato dell’uomo che lo sorregge, il padre. Intorno la corsa contro il tempo per salvare chi ancora aspetta vivo sotto le macerie. In un’altra immagine, una neonata nuda tra le mani di un soccorritore, le braccia abbandonate lungo il corpicino impolverato. Un uomo getta verso di lei quella che pare un’immensa tenda verde. Per proteggerla dal freddo. È nata settimana scorsa, proprio quando lo sciame sismico devastava il suo mondo, un’area a cavallo fra Turchia e Siria (con un picco di magnitudo 7,8 della Scala Richter). L’hanno trovata a Jandairis – in Siria appunto – con il cordone ombelicale attaccato al corpo della madre morta. È l’unica sopravvissuta della famiglia.

Due bambini – le vittime innocenti per eccellenza – con un destino diverso. Una linea sottile, quella che separa la vita dalla morte. Solo questione di fortuna. Ma di che fortuna si tratta? Chi è salvo per davvero in luoghi dove povertà, guerra e terremoti sono di casa? Gli occhi sbarrati di una bimba (potrebbe avere 5 anni) estratta da quel che resta della sua casa ci fanno capire che il disastro è lontano dall’essere concluso, anzi, si tratta solo dell’inizio… «Dov’è la mamma? Chi mi proteggerà adesso?». E ancora l’istantanea di un uomo che non lascia la mano di sua figlia, 15 anni, morta sul suo letto e ancora sepolta dai detriti a Kahramanmaras, in Turchia, epicentro delle prime forti scosse. Poi le immagini di chi ancora spera in un finale diverso con gli occhi fissi sui calcinacci. Calcinacci da dove fuoriuscivano richieste di aiuto, lamenti, sms disperati. Adesso più.

La carrellata di fotografie in arrivo dall’Anatolia è un pugno nello stomaco. Ci ricorda situazioni di devastazione già viste, certo, da lontano: Sumatra (2004), Fukushima (2011), Nepal (2015), Amatrice (2016). Ci spinge a riflettere sull’ineluttabilità delle catastrofi naturali ma anche – e come sempre – sulle responsabilità umane. Tra le altre voci ricordiamo anche quella – ripresa dal «Corriere della sera» – di Mustafa Erdik, docente all’Università del Bosforo, ad Istanbul, il quale spiega: «Il numero tanto alto di vittime è causato dalla scarsa qualità degli edifici». Anni di incuria e abusivismo edilizio, molto marcato nel sud-est della Turchia, hanno da sempre reso questa zona – altamente sismica – particolarmente esposta alla furia dei terremoti. Inoltre, nel Paese, si sta diffondendo il malcontento riguardo all’impiego della «tassa sui terremoti» imposta alla popolazione da Ankara dopo il sisma del 1999 che provocò la morte di oltre 17mila persone. «Come sono stati spesi i soldi raccolti finora tramite l’imposta?», chiede l’opposizione ad Erdogan. Oltrepassiamo il confine, seguendo il filo delle responsabilità umane. Andiamo nel nord della Siria, dove infuria da tempo la guerra civile. La crisi scoppiò infatti nel 2011 – quando iniziarono le proteste contro il regime di Bashar al Assad, nel contesto delle Primavere arabe, represse con violenza dalle autorità – e non è mai finita. È solo scomparsa dalle nostre cronache. Altri drammi e conflitti l’hanno cancellata dalla nostra memoria. Guerre che, come i cataclismi, ammazzano innocenti e devastano regioni. Guerre che, al contrario dei terremoti, si potrebbero evitare.

Ma com’era la situazione in quella «terra di mezzo» prima del sisma? «Dopo l’operazione militare turca “Fonte di pace”, nel 2019, la situazione sul campo è rimasta relativamente stabile, ma senza avanzamenti dal punto di vista dei negoziati», spiega Francesco Mazzucotelli che insegna Storia della Turchia e del Vicino Oriente all’Università di Pavia. «Il conflitto è stato “congelato”. Una fascia lungo il confine è controllata dal Governo provvisorio formato dalla Coalizione nazionale dei gruppi di opposizione. Di fatto è un’area amministrata dalla Turchia. Questa confina, ad ovest, con un’area controllata dal Governo di salvezza formato da diversi gruppi della galassia jihadista. Nella provincia di Idlib – dove i gruppi di opposizione si sono combattuti tra loro – si sono riversati molti sfollati in fuga dai territori sotto il controllo delle forze governative (a sud). Queste ultime dalla fine del 2019 in poi hanno cercato di riconquistare l’autostrada che collega Aleppo con il porto di Latakia, ma senza riuscirci in maniera definitiva». Si possono intuire le condizioni precarie in cui già viveva la popolazione in quell’area martoriata; le prospettive dopo il terremoto sono inquietanti.

Save the Children in particolare esprime la sua preoccupazione per i bambini che dormono all’aperto, al gelo, e vivono nel terrore che la terra tremi ancora. Manca tutto: cibo, coperte, ripari, acqua pulita e latrine. «La situazione sul terreno rende difficile immaginare la logistica degli aiuti internazionali», sottolinea Mazzucotelli. «Senza un accordo politico che coinvolga anche le potenze esterne (Turchia, Russia, Iran) è improbabile che le diverse aree possano coordinare gli aiuti, anche in maniera minima, con conseguenze disastrose per la popolazione. La razionalità dovrebbe spingere a una tregua provvisoria, ma le ostilità pregresse (Governo turco contro PKK, Governo siriano contro ribelli di entrambi i tipi) sono troppo radicate per rendere possibile questo scenario». Poche speranze, dunque, mentre un piccolino che conosciamo bene ci chiede: «Ma i terremoti arrivano anche qui da noi?».