Che succede in Israele?

Prima puntata, viaggio tra i volti dell’ebraismo ortodosso contemporaneo
/ 13.02.2023
di Sarah Parenzo

In Israele il Governo di Benjamin Netanyahu, tornato al potere per la sesta volta grazie ad una coalizione con partiti ultraortodossi e della destra nazionalista religiosa, si è insediato a fine dicembre. Al suo fianco spiccano tra gli altri Itamar Ben-Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, ministro della sicurezza interna, e Bezalel Smotrich, leader del partito nazionalista Sionismo Religioso, ora ministro delle finanze. Mentre Smotrich nelle interviste non ha esitato ad autodefinirsi «omofobo, razzista e fascista», a inizio gennaio Ben-Gvir, simpatizzante di Meir Kahane (estremista sionista religioso), si è presentato sulla spianata della moschea, luogo sacro per i musulmani, per una «passeggiata» che ostentava una chiara affermazione della sovranità assoluta di Israele sul territorio. Queste e altre provocazioni sempre più frequenti si accompagnano all’escalation di violenza nei territori occupati e all’inasprimento delle misure adottate dall’esercito israeliano che, solo nella giornata del 26 gennaio, ha causato a Jenin la morte di una decina di palestinesi. Naturalmente la risposta palestinese non ha tardato a farsi sentire tramite attentati e sparatorie di singoli contro i civili israeliani e la gettata di razzi da Gaza. La tensione nella regione è di nuovo alle stelle.

Pur essendo i primi a farne le spese, i palestinesi non sono tuttavia gli unici a sentirsi minacciati da questo clima di nazionalismo etnico, religioso e culturale. Dall’inizio di gennaio, infatti, decine di migliaia di ebrei, a Tel Aviv, ma anche nelle altre città, scendono in strada ogni sabato sera per protestare veementemente contro il nuovo Governo che sembra intenzionato a mutare il contratto sociale mettendo rapidamente a repentaglio le istituzioni democratiche, a cominciare dalla magistratura. In cima alla lista delle proteste vi è infatti una pericolosa riforma del sistema giudiziario che, oltre a modificare la procedura di nomina dei giudici, esautora la Corte suprema consentendo al Parlamento la possibilità di annullarne le decisioni con estrema facilità. Essendo Israele privo di una Costituzione, la Corte è di fatto l’unico organo a tutela dei diritti individuali. Forse per la prima volta in settant’anni gli israeliani temono una sorta di colpo di stato con ovvie ripercussioni sull’economia e la sicurezza dei cittadini.

D’altro canto, quella della compresenza nell’ebraismo delle componenti di nazione e religione è una questione ambigua e ampiamente dibattuta nel corso dei secoli. Se la fondazione d’Israele nel 1948, all’indomani della Shoah, sembrava aver fornito una risposta a tale spinoso dilemma identitario, oggi è evidente che l’acquisizione della sovranità ebraica all’interno dei confini di uno Stato non solo non si è tradotta affatto in una soluzione, bensì ha contribuito al sorgere di nuovi interrogativi. Tanto il protrarsi dell’occupazione ai danni del popolo palestinese, quanto il fallimento e l’inattuabilità della tanto decantata soluzione dei due Stati, stanno minando alle fondamenta la definizione di Stato ebraico democratico, ormai sfruttata all’estremo come antidoto alle critiche del resto del mondo nei confronti della dubbia condotta etica di Israele. Anche se la soluzione di uno Stato unico per ebrei e palestinesi è di fatto quella che è venuta a delinearsi, per porre fine all’apartheid è necessario conferire parità di diritti e cittadinanza a tutti i suoi residenti, implicitamente rinunciando all’esclusività della connotazione ebraica che definisce Israle dalla sua fondazione. Se già fino ad ora una simile rinuncia alla supremazia ebraica era un prezzo che gli ebrei, compresi quelli della Diaspora, non sembravano essere affatto disposti a pagare, l’esito delle ultime elezioni sembra allontanare ancora di più quest’ipotesi.

Ad uno sguardo attento non sfugge che Israele non è lo Stato laico e democratico che si presenta all’esterno, dal momento che le influenze della componente ebraica religiosa nella res publica e nei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario sono da sempre molteplici e profondamente variegate. L’inquietante operato e il percorso di soggetti come Ben Gvir e Smutritch, tuttavia, rischia non solo di creare sospetto e dissenso, favorendo l’isolamento di Israele sul piano internazionale, ma anche di trasmettere all’esterno una fuorviante immagine monolitica e riduzionistica dell’ebraismo ortodosso. Dietro l’osservanza condivisa dei precetti ebraici e presunti comuni interessi politici, si cela infatti una molteplicità di mondi estremamente sfaccettati e diversi per provenienza, pensiero, tradizioni e ideologie. Non si tratta di uno, bensì di tanti ebraismi che coesistono insieme, come pianeti paralleli spesso in buona parte sconosciuti anche all’israeliano laico che vi vive accanto.

Per condurre i lettori di «Azione» alla scoperta del pluralismo delle voci e delle diverse correnti che compongono l’ebraismo osservante nell’Israele di oggi cominceremo con una mappatura. Scomporremo l’affascinante mondo ultraortodosso nelle sue componenti ashkenazite e sefardite, entreremo nelle corti chassidiche e nelle scuole rabbiniche lituane. Incontreremo i principali leader religiosi che hanno fatto la storia degli ultimi decenni, come Rav Chaim Kanievsky (1928-2022) leader indiscusso dell’ebraismo ashkenazita ultraortodosso, e Rav Ovadia Yosef (1920-2013) leader del partito Shas fondato nel 1984. Conosceremo gli ultra ortodossi moderni che si aprono al mondo di internet e del lavoro, e prestano servizio nell’esercito.

Incontreremo i cosidetti modern-ortodox di provenienza anglosassone e i sionisti religiosi, questi ultimi in particolare attraverso l’esperienza di Rav Shagar (Shimon Gershon Rosenberg 1949-2007). Parleremo di omosessualità e fecondazione assistita, ma soprattutto delle donne, grandi protagoniste di molte delle più recenti rivoluzioni interne in una società di matrice maschilista e patriarcale. Infine ci soffermeremo su una delle poche gradevoli sorprese delle ultime settimane: l’emergere di una sinistra religiosa i cui attivisti, di diversa provenienza e dalle curiose identità trasversali, si sono raccolti per la prima volta in un congresso tenutosi a Gerusalemme lo scorso 23 gennaio. Con un’agenda molto promettente che individua proprio nei valori ebraici il fondamento di quel pluralismo politico, solidarietà e uguaglianza che oggi sembrano venire minacciati, saranno forse questi ultimi a costituire un’alternativa e a fungere da collante per evitare una spaccatura definitiva della società ebraica israeliana? Proprio nel momento storico in cui si registra un inedito spostamento ideologico e coinvolgimento pratico degli ultraortodossi a favore del sionismo, il dibattito sulla possibilità di separare sionismo ed ebraismo, «salvando» quest’ultimo, si fa più che mai attuale e necessario.