Come cambierà, se cambierà, la politica estera americana sotto la presidenza Trump? Non possiamo avere certezze, ma qualche indicazione appare plausibile. Per ordine.
In generale, la politica estera degli Stati Uniti d’America dipende in misura molto relativa dall’inquilino della Casa Bianca. L’incrocio di poteri e contropoteri che caratterizza il sistema è estremamente complesso. Gli attori principali che determinano la rotta della potenza americana nel mondo sono infatti, accanto al presidente, l’alta e media burocrazia degli apparati diplomatici, militari, di intelligence, le lobby e prima ancora il Congresso. Un ruolo non secondario lo giocano i singoli Stati confederati, alcuni dei quali hanno la capacità e la consistenza di muoversi quali attori semiautonomi sulla scena internazionale, senza e talvolta contro Washington. Esempio: dopo l’accordo con l’Iran, sul quale Trump si è finora espresso in termini di fuoco, oltre alle sanzioni previste dal Congresso restano efficaci quelle messe in piedi da diversi Stati, che non vogliono sottostare alla decisione presidenziale di trovare un compromesso con Teheran.
Gli apparati esercitano di fatto un controllo piuttosto pervasivo sulle politiche decise dalla Casa Bianca. Soprattutto, essendo chiamati ad eseguirle, possono facilmente modificarle, interpretarle, financo insabbiarle. Nessun presidente è libero di eccedere questi vincoli, indipendentemente dalla sua volontà e dalle sue capacità.
In secondo luogo, è vero che il Congresso è allineato formalmente con il presidente – Senato e Camera dei rappresentanti sono a maggioranza repubblicana – ma questo non garantisce affatto che si riducano a suoi strumenti docili. Una buona parte della maggioranza repubblicana non si riconosce affatto in Trump e non fa mistero di aver preferito il successo di Hillary Clinton, a patto che il loro partito si impossessasse di entrambi i rami del parlamento. A questo punto i casi sono due: o assisteremo a un’impressionante gara di fedeltà in soccorso del vincitore da parte di suoi segreti oppositori – ipotesi ben possibile – oppure il nuovo inquilino della Casa Bianca dovrà anzitutto guardarsi le spalle dai suoi presunti amici e colleghi di partito. Considerando fra l’altro il ruolo chiave del Senato nella ratifica dei trattati internazionali, questa alternativa non ha valore puramente scolastico.
In terzo luogo, quanto della retorica elettorale di Trump corrisponde alle sue convinzioni profonde? E soprattutto fino a che punto è disposto a spingersi nel tentativo di trasformarle in concrete politiche? Scontato un certo grado di propaganda e di estremismo verbale utile ad attrarre l’attenzione dei media, restano al netto almeno tre dati distintivi che segnalano le intenzioni di fondo, in politica estera, del futuro presidente degli Stati Uniti: il protezionismo, l’istinto isolazionista e la fiducia nel rapporto personale con i suoi omologhi.
Quanto al protezionismo. Trump critica il Nafta, ma non ha il potere né il consenso sufficiente ad abolirlo. Le due formidabili operazioni di geopolitica commerciale abbozzate da Obama, il Ttip (libero scambio con l’Europa) e il Tpp (idem con l’Asia, ma senza la Cina) sono in crisi. Il primo pare anzi abortito per la convergente opposizione di parte del Congresso e dell’opinione pubblica americana prima ancora che di alcuni paesi europei. Il secondo comincia a mostrare qualche crepa, anche perché troppo evidente appare la sua funzione geopolitica di contenimento della Cina, che non piace a molti paesi della regione.
L’isolazionismo non è categoria assoluta. Gli Stati Uniti non possono guidare il mondo, ma non possono nemmeno ritrarsene. La rete dei loro interessi economici, strategici e culturali (soft power) è semplicemente troppo vasta per sopportare derive autarchiche. Allo stesso tempo, il declino relativo della potenza americana esclude che Washington possa tornare a dominare il pianeta, come nel primo ventennio successivo alla Seconda guerra mondiale.
Come ogni buon uomo di affari, Trump ha poi una fiducia smodata nel rapporto diretto, fiduciario, con la sua controparte. Ma immaginare di costruire ad esempio una nuova politica verso la Russia basandola unicamente sull’eventuale rapporto di fiducia che riuscisse a stabilire con l’uomo forte del Cremlino è fantapolitica. Ancora una volta, si dimentica la complessità dei sistemi di cui Trump e Putin sono portabandiera, ma non dittatori assoluti (anche se qualcuno pensa, sbagliando, che Putin lo sia).
La più urgente scelta di politica estera di Trump riguarderà il rapporto con Mosca. Il nuovo presidente vuole rovesciare la deriva in corso, che ha portato russi e americani a scontrarsi in una sorta di guerra ibrida che minaccia di trasformarsi, sia pure per accidente, in conflitto vero e proprio, diretto. Operazione possibile, trovando un compromesso sull’Ucraina e sulla Siria e concedendo a Putin di apparire sul palcoscenico globale come un leader paritario. Contro una simile opzione possiamo immaginare che la reazione del Pentagono, ma anche di gran parte del Congresso e dell’opinione pubblica, sarà molto rumorosa. E probabilmente vincente. A quel punto dovremmo tornare a chiederci: ma davvero vale emozionarci ogni volta che gli americani eleggono un nuovo presidente?