Per sessant’anni sono stati la famiglia più influente e trasversale della borghesia milanese. Senza l’allure degli Agnelli, lontano dalla tradizione monarchica di Torino, però espressione di una Milano policentrica, meritocratica, multinazionale. I Moratti ne hanno incarnato l’anima elitaria, aperta al mondo, tuttavia amante del basso profilo, del rispetto della buona creanza; sicura di sé sia in taverna sia nei consigli d’amministrazione delle banche. Il fulcro, anche da morto, è stato il capostipite Angelo, figlio del farmacista di piazza Fontana, andato via di casa giovanissimo dopo il decesso della madre, cresciuto nell’università della strada, straordinario ballerino, non a caso detto «samba», che proprio in una balera conobbe la donna della sua vita, l’energica Erminia: gli avrebbe scodellato cinque figli, più uno adottivo; sarebbe diventata, nella fraseologia dei giornali, la lady cittadina.
Nel 1939, appena trentenne, Moratti compra una miniera di lignite all’aperto nei pressi del lago Trasimeno: da essa realizza una centrale elettrica alimentata dalla lignite che serviva diversi quartieri di Roma e un centro manifatturiero, dal quale si sviluppano vetrerie e centri di lavorazione della ceramica. Ma il colpo di genio è nel 1948: puntare sul petrolio, sulla commercializzazione partendo dall’acquisto di una vecchia raffineria in Texas. Nascono così gl’impianti in Sicilia, in Sardegna, in Toscana, in Liguria, in Giamaica. Sono tutti conglobati nella Saras, mentre il patrimonio della dinastia viene custodito nella «Angelo Moratti Sapa». Per mezzo secolo il petrolio garantisce proventi tali da appagare la vanità del capostipite: nel ’55 diviene proprietario dell’Inter reduce da due scudetti di fila. La prima foto lo ritrae ai bordi dell’Arena napoleonica, dove all’epoca si allenava la squadra: impermeabile bianco serrato in vita, sigaretta penzoloni, sguardo perso nel vuoto. Una reincarnazione di Humphrey Bogart in salsa meneghina, peccato che i lineamenti del viso richiamino più Trimalcione che Bogey.
Moratti deve spendere un mare di milioni e di tempo. Per vincere servono otto anni, però ne viene fuori la «grande Inter» entrata nella storia del calcio: tre scudetti, due coppe campioni, due coppe intercontinentali in meno di un lustro; la saga di Herrera, di Mazzola, di Suarez, di Corso. L’addio è brusco: Moratti capisce che con l’arrivo del ’68 l’appartarsi paga più del mostrarsi. Assieme ai due figli maschi destinati a succedergli, Gian Marco e Massimo, si ritira dal palcoscenico e si dedica alla moltiplicazione dei profitti. Nel ’72 la famiglia accoglie la chiamata cittadina per impedire che il «Corriere della Sera», messo in vendita dagli storici proprietari, i Crespi, finisca nelle mani del torinese Agnelli. La coabitazione dura quattro anni, poi lasciano campo libero ai Rizzoli, che sono stati gli storici avversari nel calcio da padroni del Milan.
Scomparso Angelo, i figli si sforzano di seguirne la strada e gl’insegnamenti. Per un decennio se ne stanno lontano dai riflettori, a eccezione della vulcanica Bedy innamorata di cinema, di teatro e per qualche mese di Klaus Kinski. Gian Marco si appassiona all’esperimento di Muccioli a San Patrignano contro la droga diventando il munifico finanziatore della comunità; Massimo è in prima fila nella candidatura olimpica di Milano, oltre che il discreto sponsorizzatore di progetti ecologici su spinta della moglie Milly, spesso eletta in comune con i verdi. A cambiare gli equilibri è l’ingresso di Berlusconi nel Milan con gli straripanti successi in Italia e nel mondo. La Milano interista costretta a un ruolo subalterno si mette a implorare i Moratti, che nel ’95 accettano di rilevare la società dall’allora presidente Pellegrini – industriale del catering, chiamato da Agnelli «il cuoco della Juve» – per 50 miliardi di lire (un po’ meno di 40 milioni di euro). Ne spenderanno oltre mille di milioni di euro per rinverdire le imprese del padre con Massimo in prima fila e Gian Marco defilato a far di conto. In pratica sull’altare del cuore sacrificheranno l’intero ricavato dell’ingresso in borsa della Saras, 750 milioni di euro.
La scomparsa dei Pirelli, il tramonto dei Falck, la metamorfosi dei Feltrinelli, l’aver resistito perfino al ciclone Berlusconi, romano centrico dopo la discesa in politica, regala definitivamente ai Moratti la primazia cittadina. È sancita dall’elezione a sindaca di Letizia, la moglie di Gian Marco, la quale non disdegna il palcoscenico, su cui ha già recitato da presidentessa della Rai e da ministra. Sotto la sua gestione a Milano viene attribuita l’Expo del 2015, ma nelle elezioni del 2011 – un anno dopo la straordinaria tripletta dell’Inter (scudetto, champions league, coppa intercontinentale) – i milanesi le voltano le spalle: le preferenze vanno a Giandomenico Pisapia, famoso avvocato penalista, politico di lungo corso, erede di un’altrettanto apprezzata e radicata dinastia. Una sconfitta inattesa, cui fanno da contorno la crisi internazionale del petrolio, l’ingresso del gruppo petrolifero Rosneft nella Saras, di cui oggi i Moratti detengono il 50,02, gli incidenti sul lavoro con morti nello stabilimento di Sarroch. A salvare i bilanci interviene la trasversalità dei Moratti: ottengono 200 milioni d’incentivi dai governi Berlusconi e Prodi, come dire il diavolo e l’acquasanta, a secondo dei gusti.
La situazione rimane, tuttavia, complicata con la Saras, che in Borsa ha perso gran parte della quotazione iniziale. Gian Marco reclama la chiusura del rubinetto Inter; Massimo a malincuore l’accontenta vendendola al tycoon indonesiano Tohir per circa 300 milioni di euro. I due fratelli, con le loro nutrite figliolanze, separano i percorsi. La scomparsa, lo scorso febbraio, di Gian Marco per molti ha rappresentato la chiusura di un ciclo.