Che cosa sarà il nuovo peronismo?

Cambio della guardia – Al posto di Mauricio Macri gli argentini hanno richiamato al potere i peronisti: il nuovo presidente è Alberto Fernandez, la sua vice Cristina Kirchner, lei stessa già due volte alla guida del Paese, quasi una nuova Evita
/ 16.12.2019
di Federico Rampini

L’intero Sud America viene beneficiato dalle svalutazioni che sospingono un boom delle esportazioni, verso la Cina ma non solo. Donald Trump reagisce con dazi punitivi su Brasile e Argentina. Si ripropone così l’eterno dualismo tra ispanici e yankee (o gringos). Sullo sfondo c’è il rilancio di un esperimento politico molto controverso. L’eterno ritorno del peronismo a Buenos Aires è interessante perché è nel lontano 1946 che l’Argentina «inventò» questo modello peculiare di populismo, per certi versi un antesignano di tanti movimenti odierni. Nonostante i disastri economici che spesso ha seminato lungo la sua strada, il peronismo mostra una resilienza invidiabile, almeno nell’animo degli elettori.

In questo dicembre 2019 il mio Far West preferito è in Argentina. La definizione le si applica per tante ragioni. Per generazioni di italiani il Nuovo Mondo, la frontiera da conquistare, fu l’Argentina più ancora degli Stati Uniti. Questo Paese ha la percentuale di immigrati italiani più alta al mondo. Tuttora Buenos Aires è una metropoli (15 milioni di abitanti) segnata dall’italianità, con quartieri come Palermo, una squadra di calcio genovese (Boca), un dialetto locale «portegno» che è un misto di spagnolo e italiano. Molti italiani vi fecero fortuna, comprese delle dinastie imprenditoriali come i Rocca di Techint. Come è noto anche l’immigrazione svizzera (soprattutto dal Vallese e dal Ticino) è stata un fenomeno rilevante, soprattutto fino alla Grande depressione degli anni ’30. Molti emigranti svizzeri s’insediano nella provincia di Santa Fe, dove nel 1856 venne fondata la prima colonia elvetica con il nome d’Esperanza.

In un’epoca dominata dal tema della sostenibilità, è una nazione straricca di terre fertili, ha riserve idriche in abbondanza, e una popolazione con un livello d’istruzione medio elevato. Delle sue risorse è avida la Cina, uno dei maggiori investitori negli ultimi anni. Pechino ha sempre importato derrate agroalimentari in gran quantità dall’Argentina, ma in questi tempi la sua fame è ingigantita da un’epidemia suina che ha dato un ulteriore colpo di acceleratore agli acquisti.

Altri settori sono oggetto dell’invasione cinese, per esempio le miniere di litio, componente essenziale nelle batterie per le auto elettriche o gli smartphone. Nella tensione tra Stati Uniti e Cina, quella che io definisco «la seconda guerra fredda» l’Argentina ha l’opportunità di lucrare sulla propria posizione neutrale, come fece all’inizio della Seconda guerra mondiale.

Ho abitato città cosmopolite come Bruxelles Parigi San Francisco New York, dove il paesaggio umano era multietnico da molto tempo. Ma in Argentina mi sento in una situazione diversa. Ci vive un intero popolo che sembra fuori posto. La prima cosa che ti colpisce di Buenos Aires è questa: non ha capito che è in Sud America. È convinta di essere Parigi; o una mescolanza tra Parigi e Londra, Milano e Genova, Berlino e Madrid. Ho girato in Messico, Brasile, Perù: hanno forti impronte di civiltà precolombiane, nel caso del Brasile un crogiolo d’influenze indio-africane. L’Argentina sembra un’intera nazione di passaggio, un pezzo d’Europa appena sbarcato da una nave; e si riserva la possibilità di tornare indietro. Del Nord Europa ha l’architettura dei palazzi, i boulevard e i maestosi giardini pubblici. Dell’Europa mediterranea lo stile umano, il modo di stare insieme, vini e cibi. Dell’Italia: quasi tutto. Perfino nelle patologie l’Argentina è europea. Il peronismo dal 1946 fu un mix di fascismo-socialismo-populismo più simile a dittature nostrane che a quelle sudamericane.

In un’America latina percorsa da proteste, con governi abbattuti dalla piazza o vacillanti, violenze dei narcos in aumento, esodi di migranti, l’Argentina potrebbe distinguersi come un modello positivo. La sua democrazia dell’alternanza funziona, il ricordo delle feroci dittature è ormai confinato nei luoghi rituali, come il Parco della Memoria in omaggio ai desaparecidos. La settimana scorsa Buenos Aires ha celebrato l’avvicendamento al vertice: gli elettori hanno dato il benservito al presidente Mauricio Macri, il neoliberista che ebbe una breve stagione di popolarità in Occidente. Al suo posto gli argentini hanno voluto richiamare i peronisti: il nuovo presidente è Alberto Fernandez, la sua vice è Cristina Kirchner, lei stessa già due volte alla guida del Paese e ormai circondata da un alone di leggenda, quasi una «nuova Evita Peron».

Il passaggio dei poteri si svolge in modo ordinato. Anche se Buenos Aires è la capitale mondiale delle manifestazioni – è rara una giornata senza cortei che sfilino davanti alla Casa Rosada in Plaza de Mayo – la caduta di Macri è avvenuta nel modo più normale possibile, alla scadenza del mandato e col suffragio universale. Eppure nessuno si sognerebbe di prendere per modello l’Argentina, che è all’ottava bancarotta sovrana, e nella sua storia turbolenta ha già «consumato» 30 salvataggi del Fondo monetario internazionale. L’ultimo default del debito estero, nel 2001, ha lasciato tracce pesanti anche nei portafogli di tanti risparmiatori italiani. E la storia sembra pronta a ripetersi con una regolarità implacabile. Cambiano i protagonisti, cambia lo sfondo geopolitico, a volte con novità clamorose. Per esempio, all’investitura di Alberto e Cristina mancava il vicino più importante, il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, che ha definito i nuovi governanti argentini «due banditi di sinistra».

È la conferma del riallineamento in corso in tutta l’America latina, che coinvolge anche i rapporti con Washington: l’Argentina e il Messico sono le due acquisizioni più recenti nel campo della sinistra anti-Trump, mentre la Bolivia liberata da Morales è passata nel campo delle destre con Brasile e Cile. Un altro fattore decisivo è il Papa argentino: Francesco ha avuto un ruolo nel riconciliare la Kirchner e il suo ex chief of staff Fernandez. Lotta alla povertà e alle diseguaglianze: papa Francesco ha dalla sua il nuovo ministro dell’Economia argentino, Martìn Guzmàn, già docente alla Columbia University di New York e allievo del premio Nobel Joseph Stiglitz. Il peronismo torna al governo con ricette che piacciono ai populisti del mondo intero, Stiglitz essendo uno dei pensatori di riferimento del Movimento 5 Stelle in Italia.

Questa Argentina ti accoglie come una Repubblica di Weimar, ma senza le ombre del totalitarismo in agguato. In comune con la Germania dei primi anni Trenta – oltre ai tanti ebrei tedeschi qui immigrati – ha il fascino decadente, la vitalità culturale, l’alta istruzione media, librerie musei gallerie d’arte e centri culturali ovunque. E purtroppo ha in comune l’iperinflazione (55% di aumento dei prezzi al consumo), la svalutazione galoppante. Il governo per frenare le fughe di capitali ha dovuto imporre restrizioni valutarie drastiche: massimo duecento dollari a persona al mese. Il mercato dei cambi offre un piccolo squarcio sulla realtà argentina. Il centro direzionale di Buenos Aires, proprio attorno alla Casa Rosada presidenziale, ospita i quartieri generali di tutte le grandi banche. Palazzi monumentali, mausolei all’inefficienza, con personale pletorico e inutile, dove si rifiutano di cambiarti dollari se non sei cliente, proprio mentre dovrebbero facilitare quei turisti che portano valuta pregiata; loro stessi ti dirottano verso piccole agenzie di strada dove si pratica il cambio nero.

Ma non puoi percepire la vera durezza di questa crisi se rimani nel centro di Buenos Aires: i ricchi che abitano nei bei quartieri come Recoleta La Isla Norte e Palermo con i loro palazzi Art Déco, o nei nuovi grattacieli di Puerto Madero, hanno tecniche ben collaudate di evasione fiscale, nei conti bancari del paradiso fiscale uruguaiano.

I ricchi latifondisti delle Pampa, che esportano nel mondo più grano dell’Australia e di recente hanno conquistato il mercato cinese della carne suina, sanno come parcheggiare all’estero gli incassi in dollari euro o renminbi. Perfino il ceto mediobasso ha espedienti antichi: compra gli appartamenti pagando in contanti, o investe i risparmi in auto straniere che si rivendono usate a un prezzo più alto del nuovo, «miracoli» dell’iperinflazione alla Weimar. La vera povertà sta cominciando ad apparire nel centro di Buenos Aires in forme discrete: qualche homeless, immigrati boliviani e venezuelani, bambini che chiedono l’elemosina.

Ma è la «grande» Buenos Aires (i 12 milioni dell’area metropolitana esterna, contro i 3 milioni della città-centro) quella che contiene tanta miseria; peggio ancora le campagne. Su 44 milioni di argentini un terzo vive ormai sotto la soglia della povertà; il 13% dei bambini soffrono di denutrizione.

È la tragedia quasi cronica ormai, di un Paese che fu tra i più ricchi del mondo. Tra l’ultimo quarto dell’Ottocento, e la grande crisi del 1929, l’Argentina era arrivata ad essere una delle dieci nazioni più opulente, con reddito pro capite superiore alla Francia. Ancora nel 1970 aveva un’economia due volte più ricca del Cile, che oggi l’ha superata nettamente. Laboratorio politico «d’avanguardia» lo divenne fin dal 1946, quando Juan Peròn diede vita al movimento che mescolava ingredienti del socialismo e del fascismo; un’ideologia «giustizialista», un consenso di massa fondato sui sindacati, la spesa pubblica clientelare, l’assistenzialismo, il protezionismo. Il peronismo disprezzato dai neoliberisti, che si sono rivelati incapaci però di superarlo.

Macri era il beniamino del Fondo monetario internazionale eppure non ha modernizzato il Paese, né ha tentato un vero risanamento dei conti pubblici. Ora la coppia Alberto-Cristina parla un linguaggio suadente, un peronismo soft che tenta di non spaventare nessuno: promette che proteggerà i più deboli, farà guerra alla miseria e alla disoccupazione, ma senza imporre perdite agli stranieri che (incautamente) hanno ancora investito nei tango-bond. 140 miliardi di dollari di debito estero da ripagare, e un prestito d’emergenza di 57 miliardi del Fmi che si sta velocemente esaurendo: la resa dei conti non potrà essere rinviata all’infinito. Né si possono penalizzare troppo gli investitori esteri, essenziali per nuovi progetti come lo sfruttamento di Vaca Muerta, uno dei più grandi bacini di «shale gas»del mondo. Avanzano anche i cinesi, sempre attenti a infilarsi dove gli Stati Uniti lasciano dei vuoti d’influenza.

Tutti hanno interesse a capire cosa sarà questo nuovo peronismo, tre quarti di secolo dopo l’esperimento originario.