Manca meno di un mese al voto e Donald Trump cala nei sondaggi. L’indice sintetico di tutti i sondaggi elaborato da Nate Silver sul sito FiveThirtyEight traccia un rialzo dei consensi verso Hillary e le assegna una probabilità di vittoria pari al 76% (il calcolo probabilistico non va confuso col suo margine di vantaggio nei sondaggi). Nella media dei sondaggi più recenti il vantaggio netto della candidata democratica è di quattro o cinque punti percentuali. Più significativo è il fatto che lei stia risalendo in molti Stati-chiave, quelli in bilico che sono decisivi per la vittoria finale, come la Florida. Comunque nella media dei sondaggi la Clinton ha un vantaggio spesso inferiore al margine di errore statistico. Gli esperti più onesti ammettono che il vero margine di errore si aggira probabilmente attorno al 7%. Quindi il vantaggio di Hillary potrebbe dissolversi alla prova dei fatti?
C’è una tesi «revisionista», che invita a rassegnarsi di fronte a questa evidenza: i sondaggi hanno sbagliato clamorosamente le previsioni su Brexit in Inghilterra, segno che c’è qualcosa di storto nel modo in cui vengono effettuati. Hanno sbagliato anche le previsioni sul referendum in Colombia, più di recente. Qualcuno ormai pensa che se i sondaggi dicono bianco, conviene scommettere sul nero… C’è una logica, del resto. Se fenomeni come Brexit e Trump rivelano una diffusa ribellione verso le élite, un distacco dall’establishment, una protesta di tipo anti-sistema, può darsi che i sondaggi sottovalutino sistematicamente il tipo di elettori che per la prima volta rinunciano all’astensionismo e usano le urne per esprimere la propria rabbia.
Può darsi inoltre che certi elettori in rottura con il «politically correct» mentano ai sondaggisti, o non abbiano voglia di annunciare le proprie intenzioni di voto. Se fosse vero questo punto di vista, allora non dovremmo neppure prestare tanta attenzione al «plebiscito» anti-Trump che sta svolgendosi sui media americani. Tutta la grande stampa si schiera con toni di allarme che non si ricordano nella storia recente della democrazia americana. Si moltiplicano gli endorsement pro-Hillary anche da parte di giornali indipendenti che un tempo non prendevano posizione, da «Usa Today» a «The Atlantic». Ed è scoppiata una rissa in seno alla tv di riferimento della destra, la rete Fox News di Rupert Murdoch, dove l’anchorman Shean Hannity accusa la conduttrice Megyn Kelly di sostenere la candidata democratica. Ma tutto questo accade ancora nell’universo delle élite, dell’establishment. E sappiamo che l’influenza reale dei media è sempre più evanescente.
«Ma perché non sono in testa ai sondaggi con 50 punti di vantaggio?» Più volte nel corso di questa campagna elettorale Hillary ha confidato ai collaboratori la sua esasperazione. Mentre scrivo, i dubbi sui sondaggi sono metodologici, ma non ho cifre alternative per contestarli. Dunque, al momento dobbiamo prendere per buoni i numeri che abbiamo, e ci dicono che le probabilità di vittoria di Hillary sembrano alte. Ma con un margine ridotto, o nella migliore delle ipotesi «normale». Non quello che ci si aspetterebbe per una candidata qualificata, esperta, competente, che affronta un cialtrone, egomaniaco, narcisista, imbroglione e bugiardo, incompetente e inaffidabile. Bene, ho usato solo un piccolo campione dalla lista degli aggettivi che solitamente incolliamo al nome di Donald Trump. Noi giornalisti ogni tanto ci scopriamo a condividere lo stesso pensiero di Hillary: com’è possibile che nei sondaggi quei due siano ancora relativamente vicini?
Mi assale una sensazione di «déjà vu». Vivevo a Milano quando, due anni dopo Tangentopoli, un certo Silvio Berlusconi si lanciò in politica. Seguii la sua prima campagna elettorale (1994) mentre ero vicedirettore del Sole 24 Ore. Per le legislative del 1996 ero diventato il capo della redazione milanese di Repubblica. Le successive campagne elettorali le seguii dall’estero. Ricordo la fatica che facevo a spiegare il fenomeno Berlusconi agli stranieri. Oggi no, non farei nessuna fatica, anzi sono gli americani a tracciare analogie fin troppo facili tra Berlusconi e Trump. Ma soprattutto, ricordo periodi in cui era difficile «conoscere un berlusconiano»: nella cerchia dei propri amici e conoscenti, se qualcuno lo votava non te lo diceva. Poi alle urne erano tanti. Idem per quanto riguarda la stampa, gli intellettuali, le élite ivi compresi tanti imprenditori (Gianni Agnelli inizialmente lo snobbava): se toglievi quelli legati a Mediaset, sembrava che l’Italia colta, influente, autorevole, fosse compatta nel bocciare Berlusconi. Eppure tre volte ha vinto e ha guidato tre governi.
Con ogni probabilità alla fine l’America dei votanti (di solito, sotto il 60% degli aventi diritto) si dividerà grosso modo in due, come ha sempre fatto, con uno scarto di pochi punti. Quella che a noi sembra un’elezione del tutto anomala per via del fenomeno Trump, potrebbe dare un risultato tutt’altro che anomalo, anzi banale.
E allora un problema riguarda quel «noi», pronome plurale che sto usando dall’inizio. Noi giornalisti. Noi opinionisti. Noi intellettuali. Noi liberal delle due coste, abitanti di New York Boston Washington San Francisco Los Angeles. Noi che ci frequentiamo tra simili, e tra le nostre conoscenze facciamo fatica a trovare un elettore (dichiarato) di Trump. Poi nella notte tra l’8 e il 9 novembre ci sveglieremo in un Paese dove molte decine di milioni di cittadini avranno votato per Frankenstein.
E li abbiamo anche visti, per carità, e raccontati. Non c’è reporter che non si sia fatto i suoi bei comizi con Trump, immersioni nella folla che lo adora, lo osanna, gli perdona tutto. Ma poi una volta tornati in redazione, al momento di scrivere, ci siamo immersi in un mondo dove «quelli là» sono ovviamente trogloditi, esseri rozzi, dominati da istinti deteriori.
Quando Obama vinse – sia la prima sia la seconda volta – «quelli là» tornarono ad essere maggioranza in soli due anni, appena si spense l’eccitazione delle presidenziali e si votò per il Congresso. C’è qualcosa che non funziona nella democrazia, nel discorso pubblico, e nel nostro modo di raccontare le cose, se queste due tribù continuano a convivere come separate in casa, nel più profondo disprezzo reciproco.
Naturalmente il disprezzo è reciproco. Non siamo solo noi progressisti a nutrire questo sentimento. Sull’altro versante, colpisce il fatto che la destra di Trump abbia così tanto in odio i democratici, da fare il tifo per Vladimir Putin; o da auspicarsi devastanti rivelazioni di WikiLeaks, che è ormai un alleato oggettivo (o un braccio operativo) della Russia. Da giorni i social media della destra americana suonano il tam tam sulle «rivelazioni che distruggeranno Hillary Clinton». Parlando alla tv di riferimento della destra, Fox News, il capo di WikiLeaks Julian Assange ha ribadito che ci saranno scoop, al ritmo di uno a settimana, «con riferimento alla campagna elettorale, sotto angolature inattese e interessanti». Inattese, salvo la quasi-certezza che attacheranno i democratici e aiuteranno Trump?
Perché finora il ruolo di WikiLeaks nella campagna elettorale americana è stato a senso unico. Le rivelazioni, a volte attingendo a materiale rubato dagli hacker russi, hanno messo in imbarazzo Hillary, hanno seminato zizzania tra lei e Bernie Sanders, hanno provocato le dimissioni della capa del partito democratico Debbie Wassermann. Confermando le accuse della stampa liberal che descrive Assange come un docile strumento nelle mani di Putin, o quantomeno un «alleato di fatto» del leader russo. Nulla di veramente nuovo. Ripercorrendo tutta la storia decennale di WikiLeaks, il tratto unificante è proprio questo: gli attacchi sono abbastanza unilaterali, salvo rare eccezioni è l’America il bersaglio principale. O quantomeno, è quando se la prende con gli Stati Uniti che WikiLeaks fa notizia e la sua fama s’ingigantisce.
L’elenco parte dal dicembre 2007, con la pubblicazione del manuale interno d’istruzioni ai militari di Guantanamo Bay, il supercarcere dove gli Usa dalla guerra in Afghanistan in poi detengono molti prigionieri accusati di essere «combattenti nemici». Un regalo alla destra americana è la divulgazione nel novembre 2009 degli scambi di email tra autorevoli scienziati ambientalisti, da cui risulterebbe un complotto contro i rari studiosi che negano il cambiamento climatico. Il 25 luglio 2010 Assange rende di dominio pubblico 75’000 rapporti segreti dei militari Usa sulla guerra in Afghanistan. Il 22 ottobre dello stesso anno è la volta di 400’000 documenti riservati sulla guerra in Iraq dai quali trapela fra l’altro un bilancio di centomila vittime irachene di cui il 60% sono civili. Il grande botto arriva poco dopo, 28 novembre 2010: è il cosiddetto «Cablegate», la rivelazione di 250’000 comunicazioni riservate tra il Dipartimento di Stato e le sue ambasciate nel mondo.
I dialoghi interni alla diplomazia Usa diventano di dominio pubblico creando tensioni coi governi (alleati o meno), talvolta scatenando crisi politiche all’interno di paesi stranieri destabilizzati dai giudizi confidenziali degli americani o dalle notizie che Washington e gli ambasciatori si scambiano sulla corruzione di questo o quel regime. Compreso il versante italiano, che coinvolge Silvio Berlusconi, Eni, Putin. In alcuni casi come la Tunisia è stato osservato che le «primavere arabe» hanno avuto una scintilla iniziale anche da quelle rivelazioni. Da ultimo Assange si è concentrato sulla campagna presidenziale Usa. Rivelazioni su Russia o Cina? Zero. Al «New York Times» che gliene chiedeva conto, in un’intervista lui stesso rispose: «Tutti criticano la Russia, che noia».