Che cosa farà Mattarella?

4 marzo – L’esito del voto rende il compito non facile al capo dello stato perché nessuna coalizione ha raggiunto la soglia di governabilità, il Movimento Cinquestelle è il più votato e il centrodestra ha ottenuto più consensi di tutti
/ 12.03.2018
di Alfredo Venturi

Schwierige Regierungsbildung, sintetizza lo «Spiegel», e stavolta non si riferisce alla laboriosa gestazione del nuovo governo tedesco. Il governo difficile da mettere insieme non è a Berlino ma a Roma, dopo un esito elettorale che ha visto il trionfo delle forze anti-sistema a cominciare dal Movimento Cinquestelle, il crollo del Partito democratico, l’egemonia del vecchio centrodestra trasferita da Silvio Berlusconi a Matteo Salvini. Quest’ultimo, galvanizzato dal successo della sua Lega, proclama di avere «il diritto e il dovere» di andare a Palazzo Chigi. Ovviamente anche Luigi Di Maio, forte dell’investitura ricevuta da Beppe Grillo e del clamoroso risultato, richiede la stessa cosa: le Cinquestelle non sono forse state consacrate dal voto come primo partito d’Italia?

 Qui si profila un arduo dilemma per Sergio Mattarella, il presidente della repubblica cui tocca il compito di sbrogliare la matassa. È vero infatti che i Cinquestelle con il 32 per cento dei voti sono il primo partito, ma è anche vero che il centrodestra (Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Noi con l’Italia) di voti ne ha conquistati il 37 per cento, classificandosi dunque come prima coalizione. E allora che si fa? Il mandato per cercare la soluzione governativa spetta al primo partito o alla prima coalizione? Sarebbe tutto molto più semplice se uno dei due scenari fosse autosufficiente. Ma così non è. Per quanto trionfale, il successo dei Cinquestelle non regala a Di Maio la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. Né gli scranni conquistati dal centrodestra raggiungono il cinquanta per cento nelle due camere.

Mattarella attende che i partiti si muovano alla ricerca di qualche accordo che superando le contrapposizioni configuri una maggioranza. Il compassato Di Maio, che per convincere gli elettori e tanto più dopo la vittoria ha molto attenuato i toni polemici e urlati del grillismo prima maniera, si dice disponibile a dialogare con tutti, accogliendo proposte di collaborazione sulle cose concrete da realizzare, a cominciare dall’elezione dei presidenti di camera e senato. Ma subito vede levarsi due sbarramenti: da una parte Salvini dichiara che non vuole tradire la coalizione di centrodestra e in proposito va personalmente a rassicurare l’alleato minoritario Berlusconi. La mossa di Salvini calma molte apprensioni internazionali: si temeva infatti la possibilità che le due forze euro-critiche, Cinquestelle e Lega, che insieme rappresentano il cinquanta per cento dei votanti, potessero dar vita a un governo decisamente ostile all’Unione europea. Non a caso Giorgia Meloni, leader dei post-fascisti Fratelli d’Italia, proclama che Roma guiderà a Bruxelles e Strasburgo il fronte sovranista.

Un altro ostacolo alle ambizioni di Di Maio viene da Matteo Renzi, il quale dichiara che non farà mai accordi con «gli estremisti». Renzi è il grande sconfitto di questa giornata elettorale. Appena quattro anni or sono il suo Pd raggiunse il quaranta per cento dei voti alle elezioni parlamentari europee: ora ne ha perduti più della metà, fermandosi sotto il venti per cento. È la seconda sconfitta in poco più di un anno: nel dicembre 2016 gli elettori avevano bocciato, in un referendum che si risolse in pratica in un plebiscito sulla sua persona, la sua proposta di riforma costituzionale. Aveva detto che in caso d’insuccesso si sarebbe dimesso e mantenne la promessa solo a metà, lasciando il governo ma conservando la segreteria del partito. Stavolta si è comportato in modo simile, annunciando le dimissioni ma congelandole: Renzi non molla, se ne andrà solo a nuovo governo insediato. «Orgoglio e precipizio», titola beffardo «il manifesto».

La mossa di Renzi lacera ulteriormente un partito sconfitto e frustrato. Le dimissioni sono una cosa seria, o si danno o non si danno, lo accusa l’autorevole Luigi Zanda, capo dei senatori Pd. Per aggirare la polemica il segretario precisa che non guiderà la delegazione incaricata delle consultazioni per la formazione del nuovo governo. Ma se volesse davvero cedere il timone si sarebbe dimesso con effetto immediato: intende invece gestire il partito negli adempimenti che lo attendono. Vuole evitare che ceda alla tentazione di negoziare con i Cinquestelle, gli «estremisti» come lui li chiama, qualche accordo per farli uscire dall’impasse. Se questo atteggiamento fa infuriare i critici interni al partito, che si apprestano a chiedergli formalmente le dimissioni effettive, regala un respiro di sollievo a Berlusconi, che un’alleanza Pd-Cinquestelle taglierebbe fuori e nella mossa di Renzi forse intravvede, per quanto remota, un’altra possibilità di superare lo stallo: il famoso «inciucio» centrodestra-centrosinistra. Ma Salvini è nettamente contrario, e poiché ormai è lui a distribuire le carte nel centrodestra...

 Come si vede ha ragione lo «Spiegel», è davvero schwierig il compito di Mattarella. Ora si parla di soluzioni temporanee, che il gergo politico romano battezza come governo del presidente o governo di scopo. In quest’ultimo caso si tratta di un esecutivo a termine appoggiato da una vasta maggioranza eterogenea, con un programma prefissato e limitato ad alcuni punti concordati, per esempio una nuova legge elettorale che superi i limiti dell’attuale e sia in grado di regalare alla gestione del paese un minimo di stabilità. Carlo Calenda, ministro per lo sviluppo economico nel governo Gentiloni, sostiene che il paese è giunto a un determinante punto di svolta e dunque propone l’elezione di una nuova assemblea costituente.

 Il problema è che il risultato del 4 marzo, che ha in pratica superato le vecchie categorie di destra e sinistra, non favorisce certo la serenità di giudizio e di azione. Renzi che si dimette e non si dimette dividendo nuovamente il partito, Berlusconi deluso e amareggiato dal sorpasso dell’alleato Salvini, Di Maio che sembra contraddire il Dna grillino cercando appoggi, sia pure per realizzare il «suo» programma. Conta proprio sulla fronda anti-Renzi del Pd, ma se il partito si spacca il frammento favorevole ai Cinquestelle basterà a raggiungere la maggioranza? Ci sono poi sul tappeto certi enigmatici nodi, come quello della gestione migratoria (Salvini ha promesso di cacciare seicentomila clandestini...) e soprattutto il rapporto con l’Unione europea. Questo punto è al centro di molti commenti internazionali. Citando Marc Lazar, «Le Monde» ricorda che l’Italia era uno dei paesi più eurofili, e ora...

«El País» sottolinea che per la prima volta in un paese dell’Unione le forze euro-scettiche raggiungono complessivamente la maggioranza. Nei commenti italiani dominati dal trionfo grillino e dalla batosta renziana questo punto appare in secondo piano, anche se inevitabilmente dominerà la scena quando si tratterà di adeguare la politica finanziaria a certe fantasiose promesse elettorali... Riassume efficacemente la situazione il «Times», notando che incombe su Roma lo «spettro della paralisi politica», mentre il «New York Times» sottolinea come l’Europa sia ormai divisa fra il «nucleo liberaldemocratico franco-tedesco» e i «rabbiosi movimenti illiberali» che emergono in paesi come l’Ungheria, la Polonia, e ora l’Italia.