Che caldo fa nel Mediterraneo?

Dinamiche geopolitiche – È qui che si sta giocando la partita globale più importante e cruciale, quella che riguarda il controllo di questo mare e dei suoi stretti, e dunque delle rotte commerciali e strategiche fra Asia ed Europa
/ 06.01.2020
di Lucio Caracciolo

La temperatura del corpo varia a seconda di dove poggi il termometro. Metterlo nel posto sbagliato produce un responso alterato. Dove conviene oggi prendere la febbre al pianeta, se lo scopo è coglierne le principali dinamiche geopolitiche? Suggeriamo il Mediterraneo meridionale.

È qui infatti, in maniera per molti inattesa, che si sta giocando una partita di principale spessore. Riguarda il controllo di questo mare e dei suoi stretti, dunque delle rotte commerciali e strategiche fra Asia ed Europa. Ne sono protagonisti russi, cinesi, turchi, arabi del Golfo, francesi e secondariamente altre potenze europee. Già questa lista spiega molto. Sembrerebbe mancare quella che del Mediterraneo è dal 1945 la superpotenza regina: gli Stati Uniti d’America. Sembrerebbe. Ma è vero?

Restiamo ai dati di realtà. Gli americani dispongono oggi nell’area mediterranea di decine di basi e di decine di migliaia di soldati, con i più moderni aerei e missili, oltre a centinaia di bombe atomiche. Il centro di questo sistema nervoso è Napoli, comando della Sesta Flotta, agli ordini del viceammiraglio Lisa M. Franchetti, a sua volta inquadrata nelle United States Naval Forces Europe, sotto la guida dell’ammiraglio James G. Foggo III, capo anche delle forze Nato nella regione. In caso di guerra, non ci sarebbe probabilmente partita fra gli americani e qualsiasi avversario. Non siamo però alla guerra. Meglio: siamo in logica di guerra, ma non ancora in guerra. In questa incertezza armata, gli Stati Uniti hanno scelto una postura distaccata. Pronti però a intervenire, se la sfida dovesse infiammarsi.

Il paradosso è che l’apparente hands off statunitense, praticato con coerenza sotto le presidenze di Obama e di Trump, contribuisce ad elevare la conflittualità. In dinamica lineare, questo implicherebbe la necessità – non la scelta – di usare lo strumento bellico, che invece si intende tenere di riserva per evitare la sovraesposizione dell’impero a stelle e strisce.

È così che negli ultimi anni nuovi ambiziosi attori sono penetrati nel Mediterraneo, profittando delle instabilità arabe e levantine. Anzitutto la Russia, poi la Cina, infine la Turchia. I primi due classificati come avversari da Washington, che vede in Pechino l’unico polo di potenza in grado di interdire al secolo in corso di confermarsi americano, come il precedente, e in Mosca un nemico necessario a legittimare la sua presa sull’Europa. Peculiare il caso della Turchia, pur sempre alleato degli Stati Uniti in ambito Nato. Ma, a conferma che le alleanze non sono più stabili come ai tempi della contrapposizione binaria Nato/Patto di Varsavia, Ankara tende a orientarsi secondo la propria scala di interessi e le proprie smisurate ambizioni, di matrice imperiale, neo-ottomana. Di qui il suo protagonismo recente nella guerra di Libia, a sostegno del pallido governo di Tripoli, e dei Fratelli musulmani che lo sostengono.

Per Mosca si tratta invece di ritrovare almeno in parte l’influenza che nel Mediterraneo meridionale, fra Levante e Africa, seppe esercitare durante la Guerra fredda. Per dimostrare agli americani di non essere affatto una potenza regionale, limitata alla sfera ex sovietica, ma un soggetto molto più ambizioso e capace di proiettare potenza anche lontano dal proprio cuore, come il caso siriano accenna e quello libico (dove Putin appoggia lo schieramento cirenaico agli ordini del generale Haftar) conferma. Nel frattempo i russi si sono incistati a Suez, la cui importanza strategica, dopo il raddoppio del Canale, è diventata ancora più evidente.

Sempre a Suez sono arrivati anche i cinesi, sull’onda delle nuove vie della seta (ufficialmente: Una Cintura Una Via). Logica conseguenza del loro irradiamento prima economico, poi sempre più militare e compiutamente geopolitico, in Africa e in Asia occidentale. Dove hanno saldato un’intesa tattica, ma potenzialmente minacciosa per il dominio americano, con i russi, ultimamente allargata anche agli iraniani.

Infine, gli arabi del Golfo, che considerano il Nord Africa islamico teatro allargato della loro cooperazione/competizione nella Penisola Arabica e nelle acque circostanti. Sicché ad esempio l’Egitto non reggerebbe senza il sostegno finanziario degli emiratini e dei sauditi.

Si noterà come in questo elenco non spicchino le principali potenze europee. Salvo la Francia, tutte le altre, Germania e Italia comprese, giocano un ruolo secondario, concentrandosi sulla partita migratoria e/o su quella energetica.

Sarà quindi consigliabile seguire con attenzione l’evoluzione dell’arco di crisi mediterraneo, con la Libia oggi in evidenza. E capire se, quando e come gli Stati Uniti decideranno – o eviteranno di decidere – di scendere in campo. Per riaffermare l’ordine. Il loro.