Charlottesville, l’ultimo strappo

Usa – Diversi esponenti del capitalismo americano si trovano in difficoltà perché Trump non ha rinnegato i legami con l’estrema destra razzista dopo le violenze in Virginia e ora rivedono la loro scommessa sul presidente abbandonando la Casa Bianca
/ 21.08.2017
di Federico Rampini

Il vero Donald Trump getta la maschera: sdogana l’estrema destra razzista, provoca turbamento e critiche anche fra i repubblicani. Più un fuggi fuggi di top manager che si dimettono dal ruolo di consiglieri della Casa Bianca, costringendo il presidente a sciogliere due di quegli organi di consulenza. Nella prima conferenza stampa al ritorno nella Trump Tower dopo mesi di assenza da New York (la Casa Bianca approfitta delle vacanze per fare lavori di restauro, e lui adora giocare a golf nei suoi resort), il presidente corregge se stesso. Gli antichi legami col mondo dei suprematisti bianchi hanno la meglio. Trump torna a commentare le violenze di Charlottesville (Virginia) che hanno fatto una vittima. Alla terza volta lui riprende la versione numero uno: si rimangia la condanna che aveva espresso contro le milizie neo-naziste e dei suprematisti bianchi. Torna così alla primissima reazione che già aveva avuto a caldo: equidistanza e un pizzico di comprensione per l’estrema destra.

A chi lo interroga sugli scontri risponde piccato: «Che dire della sinistra radicale che ha aggredito quella che voi chiamate la destra radicale? Non hanno qualche colpa anche loro?» Il presidente aggiunge che nei cortei degli ultrà «non c’erano solo suprematisti bianchi, ma anche persone davvero per bene». Lo elogia l’ex leader del Ku Klux Klan, David Duke: «Grazie Presidente Trump per la sua onestà e coraggio nel dire la verità».

Un coro di condanne si leva dal partito repubblicano, coinvolgendo esponenti autorevoli e le due cariche istituzionali più elevate del Congresso. Il presidente della Camera, Paul Ryan: «Il movimento per la supremazia bianca è ripugnante. Questo fanatismo è contrario ai valori dell’America. Non può esserci ambiguità morale». Il suo omologo al Senato, Mitch McConnell: «Non esistono neo-nazisti buoni. Abbiamo la responsabilità di lottare contro l’odio quando rialza la sua testa malefica».

Il senatore della Florida Marco Rubio, che un anno fa gareggiava per la nomination repubblicana: «Signor Presidente, lei non può lasciare che i suprematisti bianchi si prendano solo una parte del biasimo. Sostengono un’ideologia che ha provocato tanta sofferenza». Due grandi vecchi della destra al Senato, John McCain e Lindsay Graham, condannano «ogni equidistanza tra l’estrema destra razzista e chi vi si oppone». Molti del suo stesso partito condannano Trump per aver messo implicitamente sullo stesso piano i cortei degli ultrà razzisti e Heather Heyer, la donna che era scesa in piazza per manifestare la sua opposizione ed è stata uccisa da un fanatico che l’ha investita.

L’indignazione tra repubblicani è reale, resta da vedere se siamo davvero alla vigilia di una rivolta contro il presidente: troppo spesso annunciata, mai avvenuta finora. Però Trump può pagare un prezzo politico comunque. Lo si è visto quando la sua maggioranza non ha approvato la contro-riforma sanitaria. L’agenda di riforme promesse dal presidente – a cominciare dalla riduzione delle tasse – può spappolarsi se al Congresso si regolano i conti di questa lotta intestina.

Un altro pezzo di establishment rivede la sua scommessa su Trump: i capitalisti. Le parole scandalose su Charlottesville accelerano il fuggi fuggi dei top manager, che si dimettono da consulenti della Casa Bianca. Sette chief executive di grandi aziende hanno dato le dimissioni abbandonando i comitati consultivi in cui Trump li aveva invitati per avere idee sulle riforme economiche. I capi dell’azienda farmaceutica Merck, del gigante elettronico Intel, della catena di ipermercati WalMart, sono i più noti. Si aggiungono a quelli della Disney e Tesla che già se n’erano andati per dissensi su ambiente e immigrazione. Lo strappo di Charlottesville è il più clamoroso: Trump mette in difficoltà i moderati e gli ambienti industriali, pur di non rinnegare quella tela di amicizie e simpatie che si era conquistato nell’estrema destra ancor prima di candidarsi. E Trump per ripicca cancella due di quei comitati di consiglieri economici.

Trump sposa un teorema sugli «opposti estremismi», del tutto inadeguato all’America di oggi. Non siamo negli anni Sessanta quando esisteva un terrorismo di sinistra (Black Panthers, Weathermen). Continuano invece ad esistere milizie armate di estrema destra, razziste e fasciste. In azione alla luce del sole a Charlottesville.

La sua ascesa come star della politica americana è stata punteggiata – e accelerata – da una serie di ammiccamenti verso tutte quelle fazioni estremiste citate nel comunicato di condanna.

Prima tappa: nella campagna elettorale del 2012, quando Trump si trastulla con l’idea di candidarsi per la nomination repubblicana ma poi rinuncia (sarà candidato Mitt Romney contro Barack Obama). Per mesi però Trump lancia un messaggio che a posteriori capiremo essere stato un «ballon d’essai», un test in vista della candidatura: «Obama è nato in Kenya, per legge non può essere presidente degli Stati Uniti». Menzogna spudorata e vergognosa, che verrà smentita ma conserverà un seguito ampio a destra. Trump diventa il leader del «Birther Movement», il movimento che contesta il luogo di nascita del presidente. Il messaggio subliminale va dritto ai suprematisti bianchi, al Kkk tristemente noto per i linciaggi degli «incappucciati», ai sudisti nostalgici dell’America pre-guerra civile e del segregazionismo. Un afroamericano alla Casa Bianca non può che essere un alieno, uno straniero, un usurpatore che ci porta via la «nostra» America per governare in favore di «quelli là». È da quel momento che la destra razzista, estremista, fino ai filo-nazisti, s’incolla a Trump con una fedeltà assoluta. E lui si guarda bene dal rinnegare questi fan.

Secondo capitolo della vicenda: l’ex capo del rinato Kkk, David Duke, gli dà un endorsement nella campagna elettorale del 2016. Orrore, non solo a sinistra. Quei repubblicani che ricordano di essere stati il partito di Abraham Lincoln esigono una immediata e netta presa di distanza. Trump tace, prende tempo, poi se la cava con dichiarazioni evasive e ambigue. Non vuole tagliare i ponti che lo legano a un nucleo duro di fan fedelissimi. La stessa cosa avviene con l’ultra-destra del fondamentalismo cristiano (una galassia distinta anche se a volte l’ideologia fascista e il tema della «difesa della civiltà cristiana» possono incontrarsi).

Terzo capitolo: le nomine. Quando s’insedia alla Casa Bianca, Trump fa scalpore chiamando nella cerchia dei consiglieri più influenti Stephen Bannon e Steve Miller. Tutti e due già visibili nell’entourage durante la campagna elettorale. Ma tutti e due con profili biografici del tutto inadatti alle cariche istituzionali vicine allo Studio Ovale. Bannon ha diretto il sito di estrema destra Breitbart, è un noto esponente della cosiddetta alt-right (destra alternativa, in realtà sta per destra radicale), cita Julius Evola tra le sue letture preferite. Miller è noto per i suoi contatti con i suprematisti bianchi.

«Le prossime statue da demolire saranno quelle di George Washington?» A modo suo Trump mette il dito su una piaga. L’eroe della guerra d’indipendenza contro gli inglesi, nonché primo presidente degli Stati Uniti d’America, al quale è intitolata la capitale federale, era un latifondista proprietario di schiavi neri. La battuta velenosa di Trump è una critica a quelle autorità locali impegnate in una «rimozione storica»: la guerra delle statue. Ultima la sindaca di Baltimora, città con una forte percentuale di afro-americani e teatro di vaste proteste alcuni anni fa contro le violenze razziste della polizia. La sindaca Catherine Pugh ha ordinato l’eliminazione delle statue di Robert Lee e Thomas Jackson, due generali confederati cioè sudisti. Lo ha fatto «nell’interesse della città, alla svelta e senza clamore». Le gru hanno agito sotto la protezione della polizia. Su uno dei monumenti era stato scritto con lo spray Black Lives Matter, «le vite dei neri contano», lo slogan che ha dato nome al movimento di protesta contro gli abusi (spesso mortali) delle forze dell’ordine.

La stessa operazione non era andata né alla svelta né senza clamore nella vicina Charlottesville (Virginia): in quella città la guerra alle statue aveva attirato un raduno di suprematisti bianchi e neo-nazisti, culminato nelle violente proteste che hanno fatto una vittima.

La guerra delle statue dura da tempo. Un censimento approssimativo stima che restano 718 monumenti in America, eretti in onore di leader della Confederazione che combatterono contro il Nord e per salvaguardare lo schiavismo. Se li si considera come altrettanti simboli dei valori del Ku Klux Klan, razzismo e supremazia bianca, l’indignazione è naturale. È come se le piazze d’Italia pullulassero di statue di Mussolini e quelle tedesche avessero altrettanti busti di Hitler.

Molti nel Sud la vedono altrimenti. A 152 anni dalla fine della guerra civile, c’è un pezzo d’America che non si rassegna ad averla persa. E a prescindere dalle frange estremiste, nel profondo Sud la narrazione diffusa sulla guerra civile è sempre stata molto diversa che al Nord, molti bianchi del Sud non credono che con Abraham Lincoln abbiano trionfato valori etici e di giustizia. Per loro statue o bandiere confederate sono omaggi ad un mondo che va rispettato anche se perse una guerra. Il confine culturale tra razzismo esplicito, negazionismo da una parte, dall’altra revisionismo storico e relativismo culturale, non è sempre netto. Trump ha detto da che parte sta. E anche a sinistra c’è chi ammonisce: non basta renderli invisibili, perché i miti del profondo Sud cessino di tormentarci. 

Del resto per capire che queste ferite non sono state curate, basta guardare la data di costruzione delle due statue rimosse da Baltimora: è l’anno 1948. Tre anni dopo la fine, non della guerra civile, ma della Seconda guerra mondiale. In cui tanti neri erano morti al fronte, per difendere contro Hitler i valori della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.