C’era una volta la «Svizzera dell’Asia», meta privilegiata di troupe di Bollywood, di sciatori e vacanzieri estivi in cerca di sollievo dalle torride estati asiatiche, dentro valli verdissime punteggiate da laghi e corsi d’acqua, profumate di zafferano e mele, con distese di fiori, villaggi e villaggetti costruiti prevalentemente di mattoni rossi. Il Kashmir, regione tra India e Pakistan da sempre amata da re e imperatori Moghul che hanno riempito Srinagar, la capitale, di meravigliosi giardini. Il Kashmir degli hippy e dei pellegrini, dei poeti e dei viaggiatori. Quello cantato in innumerevoli sonetti, quello delle shikara (le barche locali) e delle house boat sul Lago Dal, dei sufi e della cosiddetta tomba di Cristo che era diventata una meta piuttosto popolare grazie a un famoso e ormai dimenticato libro (leggi box).
C’era una volta il Kashmir, che poi è scomparso da mappe di viaggio e dalla memoria collettiva, ridotto per anni, anche grazie al terrorismo «telecomandato» dal Pakistan, soltanto a una mera questione geopolitica o a una «regione contesa». Contesa nata all’indomani della divisione tra India e Pakistan (1947), quando agli Stati autonomi era stata data la scelta tra le due Nazioni nascenti. Il maharaja Hari Singh, di religione hindu che governava uno Stato a maggioranza musulmana, aveva deciso per l’annessione all’India. Subito dopo il Pakistan invadeva il Kashmir conquistandone una buona parte. Immediatamente un contingente di truppe pakistane attraversò il confine con l’intento di annettere con la forza il territorio al neonato Stato islamico. Scoppiava così il primo conflitto indo-pakistano per la sovranità sul territorio del Kashmir, e si apriva uno dei conflitti più sanguinosi e duraturi della storia.
Il cessate-il-fuoco imposto dalle Nazioni Unite nel 1948 riusciva a bloccare il primo conflitto imponendo la «linea di controllo», ordinando al Pakistan di ritirare le truppe dalle zone che aveva occupato e all’India di indire un referendum di autodeterminazione. Il Pakistan però non si ritirava dalle posizioni conquistate: si annetteva invece anche i distretti del Gilgit e del Baltisan creando così il cosiddetto Azad Kashmir, cedendo anche un ulteriore frammento di Kashmir alla Cina. Da allora, India e Pakistan hanno combattuto tre guerre oltre al «conflitto di Kargil», una guerra non dichiarata. Srinagar e dintorni sono diventati terreno permanente di guerriglia e di scontri. Al tempo, su richiesta indiana, l’ONU aveva emesso una risoluzione, decretando che ai kashmiri fosse data la possibilità di decidere del loro destino. La risoluzione non è mai stata messa in atto perché il Pakistan, dopo aver venduto alla Cina un pezzo di Kashmir e dopo aver creato il Gilgit-Baltisan, si rifiutava di ritirarsi dai territori occupati. Secondo Islamabad, la regione contesa è soltanto quella appartenente all’India, nonostante la risoluzione stabilisca chiaramente come condizione preliminare per l’implementazione del referendum il ritiro delle truppe pakistane e l’obbligo, per l’India, di tenere sul territorio le truppe necessarie a mantenere legge e ordine.
Ma sul Kashmir, il Pakistan, praticamente da sempre basa gran parte della sua politica estera. E la narrativa pakistana, grazie all’incessante attività di relazioni pubbliche dell’esercito, è quella dominante. Così si percepisce la regione come un paradiso perduto di abitanti di religione musulmana. Errore: il Ladakh, che da anni chiedeva di essere separato dal Jammu and Kashmir (J&K), è di religione prevalentemente buddista. Jammu, parte del J&K, era di religione induista: era, prima che i cosiddetti Kashmiri Pandits subissero negli anni Ottanta un’atroce pulizia etnica da parte dei loro vicini di casa e fossero costretti a emigrare. E dunque per tanto, troppo, tempo ci sono stati solo gli anni di piombo. Quelli in cui quando arrivavi a Srinagar arrivavi in una zona di guerra, in cui grazie al frequente coprifuoco le scuole rimanevano chiuse per la maggior parte dell’anno. In cui fiorivano le madrase (scuole islamiche) integraliste finanziate da pakistani e sauditi, giorni in cui i terroristi prelevavano uomini e ragazzi per costringerli a combattere contro «l’India». Giorni bui in cui si tirava vernice e a volte acido in faccia alle ragazze per costringerle a portare l’hijab integrale, in cui sono stati chiusi cinema e teatri, i musicisti sono stati fatti oggetto di minacce e violenze, biblioteche, librerie e gallerie d’arte sono state sbarrate. E Srinagar e tutto il Kashmir, sono stati tagliati fuori dallo sviluppo e dal mondo, risucchiati dentro a una spirale nera di integralismo, violenza, rabbia, repressione.
Ma i cartelli sono sempre là, sempre in piedi ad aspettare un tempo migliore, che sembra essere arrivato. I manifesti che ti danno il benvenuto nel «Paradiso in terra» e che finalmente, dopo tanti anni, non suonano più ironici. L’aeroporto, adesso, è di nuovo stracolmo di gente – turisti e pellegrini – e rimangono ancora cartelli e percorsi che auguravano un buon soggiorno ai ministri del Turismo convenuti a Srinagar, in maggio, per il G20. La capitale è tirata a lucido; sembra che gli anni di piombo non siano mai esistiti. Ragazzi e ragazze, studenti e studentesse affollano le strade della capitale. Intorno al Lago Dal, finalmente di nuovo pieno di shikara magnifiche e cariche di turisti, sono fioriti affollatissimi ristorantini di strada dove la sera si fa la locale versione del barbecue. Ci sono ristoranti e alberghi eleganti, strade e mercati sono curati e rimessi a nuovo. Per strada, le ragazze con l’hijab si mescolano a quelle in jeans e a testa scoperta, alle madri con un velo di chiffon in testa e alle nonne che indossano ancora il tradizionale abito delle donne kashmire e, come racconta una studentessa locale, in barba alla morale diventata più rigida e bigotta negli anni di piombo, continuano a fumare beatamente la tradizionale hookah (narghilè). «Non è facile» racconta Farah, che gestisce assieme a due delle sue sorelle un minuscolo negozio sulla via verso Gulmarg (J&K). «Ma adesso tutte le ragazze dei dintorni sanno che è possibile. È di nuovo possibile che tre ragazze, senza la sorveglianza o la “protezione” di un padre o di un fratello, tengano in piedi un’attività aperta al pubblico. E perdipiù godendo del sostegno e del supporto di tutta la comunità locale». D’altra parte, l’aria di cambiamento si respira ormai dappertutto. Anche fuori dalla capitale, anche in quei posti i cui nomi, per troppi anni, sono finiti sui giornali soltanto per via di attentati o massacri più o meno sanguinosi.
Baramulla è uno di questi. «Guardati intorno», dice Touseef Mehraj Raina, il sindaco della città. «Guarda questo ristorante, guarda il caffè vicino. Ragazzi e ragazze insieme, prima era impensabile. Prima uscire di casa era difficile, la gente aveva paura di uscire, paura di parlare. Paura dei terroristi o di essere scambiata per fiancheggiatrice di terroristi. Adesso è un altro mondo». Da quando, il 5 agosto 2019, il governo di Delhi, con quello che è stato definito un colpo di mano costituzionale, ha sparigliato le carte in tavola e ha decretato la fine dello Stato autonomo del Jammu&Kashmir, creando al suo posto due Territori dell’Unione: il Kashmir e il Ladakh. Il decreto presidenziale che metteva fine all’esistenza dello Stato non aboliva, come è stato erroneamente detto, l’articolo transitorio della Costituzione indiana 370 che sanciva l’autonomia del J&K: decretava invece la nascita dei due nuovi territori proprio in virtù dei poteri attribuiti dall’articolo 370. Il decreto ha portato anche all’abolizione di altri articoli transitori indecenti, come la proibizione, per le donne kashmire che si sposavano al di fuori dello Stato, di mantenere proprietà di famiglia. Ma, soprattutto, ha di fatto abolito lo status di «regione contesa» e ha spazzato via una classe politica connivente e corrotta lasciando spazio a giovani come Touseef, cresciuti negli anni di piombo. Giovani che portano dentro le ferite e le cicatrici di quegli anni. A cui non importa nulla di terrorismo, di lotte per l’indipendenza o del Pakistan, ma che vogliono lavoro, sviluppo, Internet, musica e teatri.
La stessa aria si respira più in là, a Gulmarg, la «Valle dei fiori», 180 chilometri quadrati di riserva naturale protetta, un campo da golf, una seggiovia e, d’inverno, 25 chilometri di piste da sci e da snowboard. La «Svizzera dell’Asia», appunto. Dove si rifugiava spesso Indira Gandhi, dove tra spettacolari distese di fiori e prati che si perdono a vista d’occhio, coppiette, famigliole e bambini fanno colazione al sacco o si prenotano per una passeggiata a cavallo. Gli alberghi, anche quelli più cari, sono tutti strapieni, i ristoranti straripano di gente. Turisti sofisticati e «occidentalizzati» si mescolano ai bimbi di una madrasa in gita scolastica. E anche andando a sud, nella «famigerata» valle di Srinagar, lungo l’autostrada che collega Srinagar a Jammu, la situazione non cambia. Qui ci sono ancora posti di blocco, è vero, e c’è l’esercito che pattuglia le strade. Principalmente perché è la stagione dell’Amarnath Yatra, il pellegrinaggio induista che, dal campo base di Pahalgam arriva fino a una grotta situata a quasi quattromila metri in cui si trova uno Shiva Lingam (il fallo di Shiva) di ghiaccio.
Bisognerebbe farlo a piedi, ma adesso c’è anche un servizio di elicotteri che porta i più pigri a destinazione. Negli anni bui, il «tiro al pellegrino» era uno degli sport prediletti di jihadisti assortiti, e la guardia rimane ancora alta. Anche qui, però, ti accorgi che l’aria è cambiata. È cambiata la percezione della gente nei confronti dei soldati, visti adesso come protettori più che invasori. E anche qui, lungo la strada, è tutto un fiorire di ristoranti, punti di ristoro, alberghetti, piccoli caffè in riva al fiume. Alcuni eleganti, altri meno. E gli uomini che vedi fermi sul ciglio della strada non hanno lo sguardo torvo di un tempo, ma vendono succo di mele e frutta locale. Il ritrovato benessere ha cambiato le cose più di una bacchetta magica. I negozi degli artigiani, quelli che producono pashmina, scialli ricamati o oggetti di cartapesta laccati e dipinti, sono di nuovo stracolmi. Così come le botteghe degli scultori di tralicci, pareti e mobili di legno, altra attività tipica. Si producono, e si esportano, mele e zafferano, lavanda e attrezzature da cricket, castagne, mandorle, pesche e ciliegie. E pian piano si fanno avanti gli investitori esteri, a cominciare dagli Emirati Arabi che stanno costruendo un grande centro commerciale di lusso a Srinagar e non finanziando le solite madrase.
«Se continua così», racconta il dirigente di una ONG locale, «vedrete un altro Kashmir, un Kashmir che fino a poco tempo fa sembrava impossibile anche sognare». Dove sono sparite dai muri le scritte d’odio, sostituite da inviti a rispettare l’ambiente e da un servizio di bike sharing: «Burn fat, not fuel» (brucia grassi, non carburante). La verità è che la prosperità, e finalmente il Governo indiano lo ha capito, è il modo migliore per togliere terreno sotto ai piedi a militanti e guerriglieri vari, che hanno fatto proseliti tra i giovani soltanto perché, letteralmente, non c’era niente altro da fare: niente concerti, niente musica, niente cinema, niente sport, niente futuro o prospettive. A Srinagar e dintorni, in realtà, i sostenitori della jihad sono sempre stati una sparuta minoranza. Gli altri vogliono solo normalità. E che il Kashmir torni finalmente a essere la «Svizzera dell’Asia».