C’era una volta in America

Capitol Hill – Il Paese è sotto shock dopo l’assalto degli estremisti pro Trump anche se in realtà il golpismo è un concetto un po’ meno estraneo alla storia americana di quanto si creda
/ 11.01.2021
di Federico Rampini

Com’è potuto entrare nel linguaggio politico americano, e nella realtà dei fatti, il concetto di «golpe»? Non è solo l’assalto al Congresso del 6 gennaio ad aver imposto questo tema. Pochi giorni prima di quel tragico attacco non si era prestata la dovuta attenzione ad un appello firmato da tutti gli ex ministri della Difesa americani – inclusi molti repubblicani come Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Jim Mattis – che intimavano alle forze armate di rispettare la Costituzione e tenersi fuori dallo scontro politico. Donald Trump aveva reso verosimile anche quello, a cominciare dalle sue minacce di usare l’esercito contro i manifestanti di Black lives matter l’estate scorsa.

Molto più di recente erano circolate indiscrezioni su alcuni scambi con i suoi collaboratori, riguardo all’ipotesi di mandare le truppe in alcuni Stati per far ripetere l’elezione presidenziale. Quelle forse erano destinate a rimanere elucubrazioni da fantapolitica, delirio paranoico. Il 6 gennaio lo scenario che è sembrato realizzarsi nei sogni di qualcuno era un altro. È accertato che alcuni manifestanti partiti all’assalto del Congresso quel giorno erano convinti che Trump stesse guidando il corteo, che il presidente fosse personalmente in testa all’assalto popolare contro la sede delle odiate istituzioni, il covo dei politici «corrotti e venduti». George W. Bush quella sera commentava: è così che ci s’immagina il passaggio dei poteri nelle cosiddette repubbliche delle banane.

Mezza America si è interrogata con costernazione sul godimento di autocrati come Xi Jinping e Vladimir Putin. In realtà il golpismo è un po’ meno estraneo alla storia americana di quanto si creda. All’inizio della Grande depressione un bivacco di reduci della Prima guerra mondiale assediava il Congresso per chiedere aiuti, fino a quando il generale MacArthur lanciò le sue truppe contro i manifestanti, interpretando in maniera molto espansiva gli ordini del presidente Herbert Hoover. Lo stesso generale MacArthur fu accusato di piani golpisti quando tentò di disubbidire alla Casa Bianca durante la guerra di Corea (voleva lanciare bombe atomiche sulla Cina). Gli anni Trenta videro anche un pezzo di classe dirigente americana simpatizzare apertamente con Benito Mussolini. E quando Franklin Roosevelt chiese poteri speciali per attuare il «New Deal», molti nel suo entourage e nella sua base auspicarono una «dittatura di sinistra» per piegare le resistenze dell’establishment capitalista.

Trump ha aggiunto la sua capacità di essere dentro e fuori le istituzioni al tempo stesso. Ha continuato a tuonare contro la politica pur essendo il titolare del potere esecutivo. È un capo-popolo e al tempo stesso maneggia le leve del Governo federale. Quanti degli apprendisti stregoni che hanno «costruito» il fenomeno Trump, dal 2015 in poi, si rendono conto delle proprie responsabilità? 

Questo dovrebbe interpellare anche i grandi media progressisti che hanno campato sul giornalismo «resistenziale» ingigantendo la visibilità di Trump, prima di tutto i social media Facebook e Twitter che hanno cominciato a censurarlo solo alla fine, quando ormai era troppo tardi. La principale responsabilità ricade comunque sulla «Fox News» di Rupert Murdoch.

Questa rete televisiva di destra dopo il 6 gennaio ha tentato un’operazione di damage control per limitare i danni. Ha condannato le violenze, senza attribuirle direttamente a Trump. La Fox ha accusato la sinistra di usare due pesi e due misure, avendo sempre legittimato la violenza dell’estate scorsa quando i cortei anti-razzisti di Black lives matter devastavano interi quartieri e incendiavano commissariati. Ha preso le distanze da Twitter e Facebook per la loro scelta di censurare il presidente. Tutti a destra cercano comunque di non tagliare i ponti con la base di Trump, quei 70 milioni di elettori dei quali molti credono davvero che Joe Biden sia un usurpatore e che la sua vittoria sia rubata.

Biden per ora ne esce rafforzato. L’assalto al Congresso di Washington ha coinciso con un exploit quasi miracoloso, la conquista di ambedue i seggi senatoriali della Georgia. Di colpo Biden ha una maggioranza omogenea nei due rami del Parlamento e la sua agibilità di governo è superiore alle attese. Ne ha approfittato per designare il suo ministro della Giustizia: sarà Merrick Garland, magistrato federale che Obama tentò di nominare alla Corte suprema nel 2016, ma che venne bocciato dalla maggioranza repubblicana del Senato. Il ruolo di segretario della Giustizia sarà ancor più delicato nel dopo-Trump, visto che dovrà guidare con imparzialità e rigore anche il cumulo di pendenze giudiziarie a carico dell’ex presidente.

Biden deve interrogarsi su quel che può accadere prima del 20 gennaio. La lunghezza della transizione americana è un’anomalia fra le democrazie. Era ancora più lunga fino al 1933 (durava da novembre a marzo) e fu accorciata da Roosevelt che doveva affrontare la Grande depressione. Un passaggio dei poteri così dilazionato crea dei vuoti decisionali pericolosi. Con Trump si è scoperto che può essere perfino un rischio per la tenuta della democrazia.

Il tema più sostanziale, che accompagnerà Biden a lungo, è la base sociale del trumpismo, la larvata guerra civile americana. Biden rischia di essere altrettanto «illegittimo» per quasi mezza America di quanto lo è stato Trump nei suoi 4 anni. Cosa può fare, cosa cercherà di fare per evitare di essere lo specchio rovesciato del suo predecessore, cioè il presidente di mezza Nazione, l’usurpatore per gli altri? È curabile questa divisione? Con quali mezzi? Biden cercherà di rispondere al disagio economico della classe operaia, aggravato dai lockdown e dalla recessione. Ha già rubato a Trump il tema del protezionismo, con il suo slogan «Buy american», compra americano, che va nella stessa direzione di «Make America great again».

Una lettura esclusivamente economicista del trumpismo sarebbe riduttiva, però. Le analisi più serie e approfondite sulla base sociale di Trump – ben rappresentata dai «quarantamila di Washington» – dicono che l’impoverimento e il regresso economico non sono sempre presenti in quel mondo, né determinanti. Il movente più importante, per esempio dietro il fenomeno dei democratici che votarono per Barack Obama e poi passarono a Trump, è il declassamento di status. L’America «con laurea» li guarda dall’alto in basso.

Un sintomo emblematico lo trovo nel linguaggio usato dal mio amico Alan Friedman, giornalista progressista, che nei talkshow definisce gli elettori di Trump dei «bifolchi», ignoranti che non sanno quello che fanno. È la definizione più benevola, ma è proprio quella che gli interessati percepiscono come la nuova forma di razzismo. Mentre è proibito nella cultura contemporanea manifestare apertamente disprezzo per chi ha un colore della pelle diverso dal nostro, per chi è gay o musulmano, è del tutto normale disprezzare i «bifolchi». È perfino considerato una forma di antifascismo.

Biden forse può capirlo perché ha le sue radici familiari nell’immigrazione irlandese, un mondo dove il razzismo verso i «bianchi di serie B» fu un’esperienza concreta e durevole. Ma c’è poco nell’arsenale delle politiche di governo che lui possa fare. Dovrà lavorare sui simboli, sulle narrazioni, sull’immaginario della Nazione. Auguri.