Le attenzioni adesso sono tutte rivolte sulla sorte di Liu Xia. La comunità internazionale ha chiesto a Pechino di rendere libera la vedova del premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo, scomparso il 13 luglio scorso a sessantuno anni per un cancro al fegato mentre era ancora in stato di arresto in Cina. Liu Xia, poetessa, pittrice, fotografa, anche lei malata di cancro, è stata vista l’ultima volta al funerale e alla cerimonia di dispersione delle ceneri del marito, accompagnata dal fratello e dal cognato. Poi più nulla. Secondo le autorità cinesi Xia in realtà sarebbe «libera», ma di fatto sin dal 2010 si trova agli arresti domiciliari, controllata da agenti cinesi in borghese che non le hanno mai permesso di muoversi in libertà. Quegli stessi agenti che qualche giorno fa hanno respinto violentemente una troupe del «Guardian» che cercava di raggiungere la casa del più famoso dissidente cinese, lasciato morire in un ospedale di Shenyang nonostante gli appelli internazionali che chiedevano a Pechino di lasciarlo curare all’estero.
Ma la strategia cinese è ormai più che evidente: ogni sforzo è volto a limitare il più possibile che le idee di Xiaobo e della moglie Xia si diffondano, come un virus, e provochino il consolidarsi di una coscienza sociale che vada contro gli interessi del governo centrale.
È il 2009 l’anno chiave per capire quanto Pechino stia tutt’oggi combattendo contro i suoi critici, per limitare i danni della dissidenza civile. Il 2009 è infatti l’anno in cui Liu Xiaobo viene arrestato per «attività sovversive». Lui, che aveva partecipato alle proteste di piazza Tienanmen nel 1989, è la figura che più ricorda, anche senza dire una parola, solo con il suo volto e il suo amore per la moglie Xia, sposata nel 1996 mentre era detenuto in un campo di rieducazione cinese, quei giorni di massacro. Ma nel corso degli anni il suo attivismo si era trasformato in un appello alla riforma democratica, quanto mai distante da una rivoluzione violenta. Nel dicembre del 2008, insieme ad altri intellettuali e attivisti, Liu Xiaobo contribuisce a scrivere e pubblicare la Charta 08, un manifesto per la democrazia che chiede «Libertà, Diritti umani, Uguaglianza, Repubblicanesimo, Democrazia, e un Governo costituzionale»: «Per la Cina, il sentiero che conduce fuori dalla situazione attuale esige che ci spogliamo del concetto autoritario dell’affidarsi a un “sovrano illuminato” o a un “onesto funzionario”, per orientarci invece verso un sistema di libertà, democrazia e Stato di diritto, e verso l’adozione di una mentalità da cittadini moderni che considerano i loro diritti come fondamentali e la partecipazione come un dovere».
Qualche giorno dopo, alla vigilia della giornata mondiale dei diritti umani, la polizia va a prenderlo, sospettato – insieme con un altro attivista, Zhang Zuhua – di aver raccolto le oltre trecento firme della Charta. Nel 2009 si celebra il processo, che lo condanna a undici anni di carcere per atti contro il governo. Ma Liu Xiaobo non rinuncia a scrivere, e denuncia dalle colonne del «South China Morning Post» la violazione dei diritti umani fondamentali e della libertà d’espressione perpetrata da Pechino: «Fare opposizione, criticare, non vuol dire essere sovversivi». La condanna di Liu solleva polemiche internazionali, si mobilita la società civile, ma il governo cinese non fa alcun passo indietro. Nel 2010 viene insignito del Premio Nobel per la Pace dall’Accademia svedese, un premio mai formalmente riconosciuto da Pechino, tanto che non verrà citato nemmeno nel comunicato ufficiale sulla sua morte, il 13 luglio scorso. Liu Xiaobo è morto senza mai aver potuto ritirare il premio, e nella storia dei Nobel era accaduto soltanto un’altra volta: nel 1938, quando il regime nazista lasciò morire il dissidente Carl von Ossietzky, anche lui celebrato Nobel per la Pace.
Negli ultimi sette anni la comunità internazionale ha lentamente dimenticato Liu Xiaobo. Un’attenzione sempre più forte agli affari interni, ma anche la minaccia del fondamentalismo islamico, la diffusione del protezionismo, ha messo in luce i limiti delle dichiarazioni universali, e della mobilitazione politicamente corretta della società civile internazionale. Per Amnesty International i simboli della libertà occidentale sono stati abbandonati nelle mani della potenza cinese, seconda economia del mondo, per realpolitik e forse anche imbarazzo. Non è un caso se anche gli altri premi Nobel cinesi si sono spesi poco per difendere Liu: Mo Yan, premio Nobel per la Letteratura, ha parlato del dissidente cinese soltanto nel 2012, dicendo di «sperare» nella sua liberazione. Gao Xinjinag, premio Nobel per la Letteratura nel 2000, che scappò nell’89 dalla Cina proprio per i fatti di piazza Tienanmen e poi prese la cittadinanza francese, ha detto pochi giorni fa: «Non so nulla di Liu Xiaobo, so solo che è morto».
La guerra della Cina di Xi Jinping contro l’eredità di Liu Xiaobo continua perfino oggi, dopo la sua morte. Da giorni la censura blocca ogni tentativo di celebrare le parole e le opere di Xiaobo su Weibo, il social network cinese. Ma perfino WhatsApp, il social network di messaggistica privata, sembra bloccato. La comunicazione è ciò che spaventa di più il governo di Pechino, ma cancellare del tutto l’eredità di Liu Xiaobo è una missione impossibile: dall’estero sono iniziate a circolare fotografie di una sedia vuota davanti al mare, con l’hashtag #withliuxiaobo. Ed è soprattutto a Hong Kong che si concentrano le manifestazioni di solidarietà per quello che viene definito «un vero eroe» dei diritti umani. Il 15 luglio centinaia di persone sono scese in piazza con una candela, a ricordare quanta strada ancora deve fare la Cina per conoscere la democrazia.