Nei prossimi sei mesi Emmanuel Macron si gioca tutto. Entrando all’Eliseo sull’onda di una vittoria fulminante ma limitata nel consenso – solo un votante su quattro si era espresso per lui al primo turno delle presidenziali, mentre l’impresentabilità della sua avversaria Marine Le Pen rendeva scontato il trionfo al ballottaggio – il giovane ex banchiere d’affari ha promesso una «rivoluzione». Titolo del suo libro, uscito nel 2016, con il quale si presentava a un pubblico che in grandissima maggioranza non aveva idea di chi fosse quell’ambizioso giovanotto. Emblema della tecnocrazia con una verniciatura di sinistra liberale, ma con la vocazione a collocarsi al di sopra delle parti. D’altronde, Macron ama paragonarsi a Giove. E adora i simbolismi della carica, che fanno del presidente della Repubblica francese un re di fatto, con l’unica clausola di non disporre, per ora, di legittimazione dinastica.
I suoi primi passi sulla scena internazionale sono stati al pari di tanta autoconsiderazione. Così ha accolto Putin alla reggia di Versailles, infliggendogli una lezione sui diritti di libertà non troppo gradita. Ha voluto Trump accanto a sé il 14 luglio, mentre le sue truppe sfilavano giù per i Campi Elisi, impressionando l’ospite americano al punto da spingerlo a ordinare per il prossimo 4 luglio, festa nazionale americana, un’analoga parata sul Mall di Washington (pare che i militari e il Congresso vi si oppongano, considerandola un-American). Infine ha subito spiegato alla cancelliera Merkel che è sua intenzione «rifondare l’Europa», anche se non è ben chiaro come – la signora non è parsa entusiasta, vista anche la pressione interna della CSU bavarese e quella esterna di Alternativa per la Germania e Linke, non proprio euroentusiaste. Non contento, Macron si è concesso in questi primi mesi vertici con tutti gli altri leader mondiali, dal cinese Xi Jinping (non un successo) all’indiano Modi (piuttosto caloroso e fattivo).
Ma il destino di Macron si gioca in casa. Questo presidente ha vinto perché ha messo fuori gioco la vecchia classe politica, ha sbaragliato e scompaginato i partiti classici, ha aperto le porte della politica a una giovane o meno giovane pletora di «uomini nuovi», alcuni privi di esperienza ma mai di ambizione, accorsi sulle barricate della sua «rivoluzione». Ha introdotto una retorica fiammeggiante e altisonante, con il bemolle dei ricorrenti «allo stesso tempo», quasi un intercalare istintivo con il quale ama soppesare e bilanciare le sue affermazioni, caso mai qualcuno tentasse di schiacciarlo troppo a destra o a sinistra. Ha fatto fuori in un batter di ciglia il capo di Stato maggiore delle Forze armate, generale Pierre de Villiers, ovvero il rappresentante più autorevole di un’istituzione amatissima dai francesi – oltre che uno dei capi della franco-massoneria, potere piuttosto pervasivo nei dintorni della Senna. E ha come d’abitudine caricato sulle spalle del primo ministro Edouard Philippe il compito di esporsi nelle battaglie di riforma che sta cominciando ad avviare. E su cui si gioca il futuro, compresa la sua eventuale rielezione per un secondo quinquennato.
Battezzato dai suoi avversari «presidente dei ricchi», Macron sta dando un’impronta neoliberista, e allo stesso tempo neostatalista, a tali riforme. Del primo approccio è buon esempio lo scontro con i ferrovieri, categoria potente e fortemente sindacalizzata, che potrebbe sfociare in una privatizzazione o quanto meno nel ridimensionamento del ruolo politico e sociale dei sindacati, accusati di restare affezionati a vecchi schemi che frenano l’efficienza e la produttività del lavoro. La mobilitazione degli cheminots è stata immediata e rabbiosa. Ma il governo non sembra lasciarsi intimidire. È solo un caso, fra molti, di quella che sarà una primavera-estate molto calda, con lavoratori e classi sociali svantaggiate mobilitate contro il liberismo vero o presunto di Macron.
Sul fronte statalista, due casi spiccano sugli altri. Macron vuole accelerare il processo di riaccentramento dei poteri pubblici, già avviato dai suoi due predecessori dopo la stagione dei regionalismi e dei localismi. Con ciò attirandosi le antipatie di presidenti di regione e sindaci, lobby piuttosto influente e combattiva. Insieme, il governo sta preparando provvedimenti restrittivi per proteggere i campioni nazionali dell’industria e dei servizi contro eventuali o effettivi assalti stranieri. È il caso di L’Oréal, sul quale non è chiaro quale sia l’atteggiamento di Nestlé, il gruppo svizzero che potrebbe mettere in vendita, non si sa bene a chi, il suo pacchetto azionario del 23%. Simile il caso di Danone, nel mirino di Pepsi e Coca-Cola. Più strategici gli esempi che riguardano le telecomunicazioni, le nanotecnologie, l’industria militare, i cantieri, l’acqua, l’energia e le banche. Il governo sta preparando una lista delle imprese intoccabili, in quanto strutturali per la sicurezza e il benessere nazionale.
Soprattutto, su questi diversi fronti la retorica di «allo stesso tempo» non può reggere all’infinito. Macron dovrà scegliere dove far cadere l’accento, rompendo l’equilibrio fra protezione sociale – è il caso degli alloggi per i ceti meno agiati – e rilancio delle imprese attraverso un alleggerimento del regime fiscale. Il tutto restando nel quadro, peraltro lasco, dei vincoli europei. E sotto lo sguardo vigile della Germania e dei suoi alleati del Nord, Paesi Bassi in testa, fondamentalmente diffidenti e comunque indisponibili a pagare per un paese sovraindebitato come «Krankreich».