Si è parlato molto dell’Africa al vertice Onu sul clima in corso a Madrid, il cosiddetto «Cop25». Magari indirettamente, magari ai margini, ma il continente che più di ogni altro sta soffrendo per i mutamenti climatici che affliggono il pianeta è tornato continuamente nei discorsi. I critici dei «Fridays for Future», le manifestazioni giovanili che in molti Paesi protestano contro l’inazione dei governi nel combattere il saccheggio delle risorse naturali e dell’ambiente, accusano Greta Thunberg e i suoi seguaci di aver dato vita a un movimento che pensa solo al benessere dei paesi ricchi, di essere incapaci di mobilitare il sud del mondo. Ma quando, nel suo discorso di apertura a Madrid, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterrez ha contrapposto alla passività dei governanti la «leadership» e la «mobilitazione» dei giovani, aveva di sicuro in mente anche la quindicenne ugandese Leah Namugerwa.
Ispirata dalla sua quasi coetanea svedese Greta Thunberg, Leah ha avviato la stessa, solitaria forma di protesta. Ha preso a disertare la scuola e si è messa al lato della strada, inalberando un cartello che proclamava il suo «sciopero per il clima». Quando ha iniziato, mesi fa, aveva solo 14 anni. Facile accusarla – pensando alla visibilità mondiale raggiunta da Greta – di essere in cerca di notorietà. Ma ci vuole un certo coraggio a compiere gli stessi gesti della ragazzina scandinava in un contesto così differente. Una cosa è sedersi per terra davanti al Parlamento di Stoccolma; un’altra starsene sulla terra rossa in infradito, o meglio ancora nell’impeccabile uniforme di scolara, con la camicia bianca immacolata, al fianco di uno dei tanti ingorghi monstre che quotidianamente affliggono Kampala.
E Leah ha mostrato di saper essere anche originale. Ha lanciato, per esempio, i «compleanni degli alberi», con l’apposito hashtag #birthday-trees: «Sprechiamo molto cibo per festeggiare il nostro compleanno», ha twittato, «ma non celebriamo quello del pianeta, pur dipendendo completamente dalle sue risorse».
Presto battezzata dai media «la Greta d’Africa», Leah Namugerwa è riuscita a portare in piazza un discreto numero di suoi compagni e i «Fridays for Future» sono diventati un fenomeno sociale e politico anche in Uganda, così come in Kenya, in Sud Africa e in altri Paesi del continente. L’agenda di Leah è molto chiara: «Chiedo al presidente Yoweri Museveni di mettere al bando le buste di plastica» è il primo obiettivo che ha dato al neonato movimento ambientalista ugandese. Oltre ai sacchetti, i suoi bersagli sono «i combustibili fossili, la deforestazione, il degrado delle zone umide, l’inquinamento dell’aria e ogni altra forma di ingiustizia e abuso ambientale». Auguri, Leah!
Ci voleva un’adolescente ugandese per ricordarci che l’Africa, ancora troppo spesso considerata una vasta parte di mondo fuori dal tempo, il continente dell’arretratezza, dell’isolamento culturale per non dire del primitivismo, vive invece in piena sincronia con il resto del pianeta, affronta e reagisce agli stessi nostri problemi, è insomma nostro perfetto contemporaneo. Il che è tanto più vero se pensiamo all’emergenza climatica. L’Africa, il meno industrializzato e motorizzato dei continenti, è quello che meno di ogni altro contribuisce alle emissioni di gas nocivi, alla presenza di CO2 nell’atmosfera e all’inquinamento globale.
Eppure – anche senza considerare il plurisecolare sistematico saccheggio delle sue risorse naturali – è quello che maggiormente soffre le conseguenze del degrado ambientale. Dai media giunge alle nostre orecchie distratte l’eco di un susseguirsi di catastrofi naturali, dall’ennesima siccità in Somalia alle devastanti alluvioni in Mozambico, dall’inarrestabile prosciugarsi del Lago Ciad alle spaventose morie di bestiame in Etiopia o in Zimbabwe. Questo crudele paradosso, che fa delle popolazioni rurali africane – insieme a quelle delle isole e degli arcipelaghi del Pacifico – le prime vittime di un male di cui non hanno alcuna responsabilità, è stato segnalato con forza da due delle maggiori Ong internazionali ai governanti del mondo riuniti a Madrid.
Nella speranza di ottenere dai leader mondiali un impegno maggiore di quello di cui sono stati capaci finora, Save the Children ha presentato al Cop25 un rapporto drammatico. Limitandosi al solo anno in corso, il 2019, la ricerca conta oltre 1200 vittime di cicloni, inondazioni e frane in Mozambico, Somalia, Kenya, Sudan e Malawi; segnala che in Africa meridionale, negli ultimi 50 anni, le temperature si sono alzate del doppio rispetto alla media globale; ricorda che le catastrofi naturali sono aumentate a quelle latitudini in intensità e frequenza, fino al caso estremo del Mozambico che per la prima volta nella storia ha subito due feroci cicloni nella stessa stagione. Dieci i paesi maggiormente colpiti nella vasta regione africana: oltre a quelli già citati, anche Madagascar, Zambia, Zimbabwe, Sud Sudan, Etiopia. Ad essere coinvolto è l’intero sud-est del continente, almeno 33 milioni di persone minacciate dall’insicurezza alimentare.
Ancora più radicale il documento presentato da Oxfam, la grande confederazione di Ong di tutto il mondo. Il report denuncia la «disuguaglianza climatica» di cui l’Africa è la maggiore vittima. «I Paesi ricchi stanno alimentando una crisi climatica che colpisce prima di tutto decine di milioni di persone vulnerabili in alcune delle aree più povere del pianeta, che non sono in grado di sopportare l’impatto di catastrofi naturale sempre più frequenti, repentine e violente», ha detto Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia, additando come maggiori responsabili gli Stati Uniti e i Paesi dell’Unione Europea.
L’alterazione del clima colpisce in maniera feroce i paesi più poveri. La calura alla quale nelle nostre città reagiamo accendendo per qualche ora in più il condizionatore d’aria, porta invece fame e morte nelle zone semiaride subtropicali, migrazioni forzate di milioni di persone, tragedie che travolgono interi sistemi di vita. I cambiamenti climatici, denuncia Oxfam, sono la prima causa al mondo di migrazioni forzate – migrazioni interne, non attraverso confini o continenti: vaste masse di persone che abbandonano i villaggi e allo stremo delle forze si trascinano in cerca di qualche forma di sostentamento, in quantità assai maggiori di quelle causate da conflitti o guerre civili.
Secondo il report, questi spostamenti di massa delle popolazioni sono cresciuti di cinque volte nell’ultimo decennio e sono destinati ad aumentare esponenzialmente in mancanza di interventi radicali sulle emissioni nocive e di un impegno finanziario massiccio a sostegno delle popolazioni colpite. Il senso di emergenza che il rapporto di Oxfam trasmette non potrebbe essere più chiaro. Non è difficile capire perché da molte parti dell’Africa si guardi al vertice di Madrid con un’aspettativa così grande da restare, con ogni probabilità, ancora una volta delusa.