Cavalcando l’onda americana

Trumpisti d’Europa – Le forze antisistema europee che s’ispirano a Trump per guadagnare il potere, guardano contemporaneamente a Putin. Una coincidenza che presto si trasformerà in una palese contraddizione
/ 16.01.2017
di Alfredo Venturi

Cavalcare l’onda che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca: così le forze europee antisistema puntano a installarsi al governo. In alcuni Paesi l’obiettivo sembra a portata di mano perché asseconda la paura e la rabbia, sentimenti dominanti nelle nostre società oppresse da crisi e terrorismo. C’è anche una maliziosa circostanza verbale che attribuisce magici poteri al nome del nuovo presidente. La trump card non è forse l’atout, la briscola che permette di vincere la partita? Dunque non sorprende che i vari Wilders, Le Pen, Petry se la vogliano giocare sul tavolo della competizione elettorale, loro che hanno salutato entusiasti l’esito del voto americano. I commenti spaziavano dal «non è la fine del mondo, è la fine di un mondo» di Marine Le Pen al «vince il concetto delle nazioni etnicamente pulite» del greco Nikolaos Mijaloliakos, presidente di Alba dorata. E così l’anno dell’insediamento di The Donald vedrà l’Europa alle prese con alcune fra le sfide più cruciali della sua storia recente.

Dalle inquietanti idi di marzo olandesi a un nuovo allarmante maggio francese, fino a un enigmatico autunno tedesco. Ecco in un drammatico scaglionarsi di appuntamenti elettorali il variopinto fronte dei trumpisti d’Europa all’assalto del palazzo d’inverno: Geert Wilders contro Mark Rutte nei Paesi Bassi, Marine Le Pen contro François Fillon in Francia, Frauke Petry contro Angela Merkel in Germania. Anche altrove i populisti galvanizzati da Trump affilano le armi, in Ungheria come in Polonia, in Spagna come in Italia. Il fermento eurofobo e xenofobo dilaga da un capo all’altro del Vecchio continente, pronto a poggiare le sue fortune politiche sulla spalla del successore di Barack Obama. I movimenti populisti parlano «alla pancia», gli slogan sono semplici e di sicuro effetto. Fuori lo straniero, sbarazziamoci dell’euro, restituiamo il potere ai governi nazionali!

Sono posizioni che tagliano ogni ponte con la tradizione. Se ne accorge a sue spese Beppe Grillo che tenta una clamorosa correzione di rotta: dirotta il gruppo parlamentare del suo Movimento cinque stelle dal grande amico di ieri, l’oltranzista britannico Nigel Farage, a Guy Verhofstadt, proponendo di aderire all’alleanza Alde (liberali e democratici europei) di cui l’ex primo ministro belga è presidente. La mossa provoca scompiglio nella base grillina, non è facile dopo tante polemiche tornare con la coda fra le gambe all’ovile di Bruxelles. Il M5s cerca di minimizzare: non è una svolta, solo un’accortezza tattica per avere più spazio nel parlamento. Ma Verhofstadt respinge la proposta, lui personalmente era d’accordo, con l’adesione grillina il gruppo Alde sarebbe diventato la terza forza a Strasburgo. Sono i suoi deputati a imporre il rifiuto: «i nostri ideali sono inconciliabili con i loro». Grillo compie un’umiliante retromarcia bussando nuovamente alla porta di Farage. Un colpo durissimo per i cinque stelle, che nonostante i mugugni avevano approvato in rete la proposta del capo. Duro colpo anche per Verhofstadt, vacilla la candidatura alla successione di Martin Schulz come presidente dell’europarlamento.

C’è un’altra incompatibilità all’orizzonte, i gruppi che in Europa s’ispirano a Trump vivono quella che prima o poi si trasformerà in una palese contraddizione: guardano con simpatia a Vladimir Putin e alla diplomazia muscolare della nuova Russia. Ma è possibile essere insieme trumpisti e putiniani? Lo è al momento, visto che il nuovo presidente non nasconde la sua ammirazione per l’autocrate del Cremlino, mentre quest’ultimo ha salutato con enorme soddisfazione un successo favorito da Mosca, a quanto pare, con ambigue manovre informatiche ai danni di Hillary Clinton, necessariamente «antirussa» come espressione degli apparati di Washington. Ma questa corrispondenza di amorosi sensi non è destinata a durare: non appena il nuovo Potus si metterà al lavoro i suoi collaboratori istituzionali lo porranno di fronte alle ferree leggi della geopolitica, alla indubitabile realtà che vuole Russia e Stati Uniti organicamente, strutturalmente rivali.

C’è poi da considerare una collaudata regola storica: i nazionalismi difficilmente vanno d’accordo, tendono al contrario a entrare in competizione se non in collisione. Soprattutto quando l’enfasi è sui programmi protezionistici in campo economico. Trump minaccia di alzare dazi sulle importazioni, e questa non è certo musica soave per le economie esportatrici europee. Come potrebbe la combattiva Marine, abituata a perorare con furente indignazione la causa dei produttori francesi tartassati dalle regole europee, giustificare la chiusura del grande mercato americano? Il trumpismo, da questa parte dell’Atlantico, rischia il cortocircuito.

Occupa infine la scena l’effetto disgregante che la nuova realtà potrebbe avere sull’Unione Europea, già di per sé corrosa da molte incrostazioni di sfiducia, delusione, ostilità. Bruxelles è in crisi d’identità e d’immagine. È ormai cosa del passato la diarchia franco-tedesca fondata sulla rappacificazione che De Gaulle e Adenauer prima, Mitterrand e Kohl una generazione più avanti, seppero sostituire alla secolare inimicizia fra le due sponde del Reno. Parigi e Berlino hanno ripreso a guardarsi in cagnesco e tanto più lo faranno in caso di avvento populista all’Eliseo. Non a caso Marine Le Pen, caldeggiando l’abbandono della moneta unica, sostiene che l’euro è al servizio degli interessi germanici, tanto che secondo lei andrebbe chiamato Deutsche Mark bis.