Caso Berset, perché nessuno è intervenuto?

Fuga di notizie, l’indagine che coinvolge il consigliere federale socialista si allargherà per capire se anche in altri dipartimentici possano essere state delle falle simili. Intanto traballa il principio alla base del Governo elvetico: la collegialità
/ 30.01.2023
di Roberto Porta

È un «B&B», ma in questo caso non si parte in vacanza. Per la politica svizzera questo 2023 è iniziato nel segno di Alain Berset (nella foto) e del «Blick», per il tanto discusso caso di fughe di notizie emerso nel Dipartimento diretto proprio dal consigliere federale friburghese. Una doppia B che da due settimane sta mettendo alle strette il presidente della Confederazione e intaccando il principio fondamentale alla base del Governo elvetico: la collegialità. Questo perché quelle indiscrezioni hanno permesso al «Blick» di anticipare con una certa regolarità le decisioni che il Governo stava prendendo nel contrastare il Coronavirus: chiusure, restrizioni e vaccini. Parole che ci ricordano quei momenti drammatici del nostro recente passato. La vicenda non è per nulla terminata ma queste due settimane di tormenta politica e mediatica si sono di fatto concluse con la seduta del Consiglio federale di mercoledì scorso. Incontro settimanale in cui Berset si è dovuto confrontare con le domande e forse anche le critiche dei suoi colleghi di Governo. E qui sono emersi due fatti decisamente inusuali nella storia recente del nostro Paese.

Il primo: una parte di questa riunione si è tenuta senza lo stesso Berset. Forse contro la sua stessa volontà il presidente, che normalmente è chiamato a dirigere i lavori, ha dovuto lasciare la sala del Consiglio federale. La discussione interna è stata affidata provvisoriamente alla vice-presidente Viola Amherd. Una configurazione inedita per un Governo che si vuole collegiale e che ha affrontato ben altre bufere a ranghi completi, con i ministri che si sono sempre guardati e confrontati a viso aperto. Il secondo fatto inusuale è emerso nel corso della conferenza stampa che ha fatto seguito alla riunione governativa, in presenza dello stesso Berset e gestita con piglio insolitamente severo da André Simonazzi, il portavoce della Confederazione. Tutto lascia pensare che il Governo abbia posto dei paletti piuttosto stretti a questa comunicazione, visto che Berset si è limitato ad affermare – e a ripetere per diverse volte – di essere pronto a collaborare con l’indagine aperta il giorno prima dalle Commissioni della gestione del Parlamento. È stato invece Simonazzi a comunicare, leggendo una nota stampa, il punto centrale emerso dall’incontro governativo, e cioè che Berset non sapeva nulla della fuga di notizie di cui è stato vittima il suo Dipartimento. Seppur più volte sollecitato, il consigliere federale non si è invece espresso con parole proprie su questo concetto, un argomento fondamentale per cercare di stabilire la verità dei fatti attorno a quelli che vengono chiamati i «Corona-leaks».

Berset verrà presto ascoltato da chi a nome del Parlamento indagherà su questa vicenda, uno speciale gruppo di lavoro composto da sei deputati chiamati a far luce su questo flusso di informazioni confidenziali. Ma i lavori di questo gruppo ad hoc non si limiteranno al «caso Berset», verrà analizzato anche tutto l’assetto comunicativo del Governo negli anni più difficili della pandemia. In altri termini si vuole capire se anche in altri dipartimenti ci possano essere state delle falle simili, con divulgazioni di notizie più o meno segrete ai media del nostro Paese. Insomma a Berna si è aperta una sorta di caccia alle fughe di notizie, una pratica non certo nuova che il Consiglio federale nel suo comunicato di mercoledì considera nociva al buon funzionamento delle istituzioni. Non sappiamo quale possa essere il margine di manovra accordato a queste indagini parlamentari. La materia appare comunque piuttosto ampia e complessa, anche perché la macchina comunicativa dell’amministrazione federale si è decisamente ingrandita in questi ultimi anni. Un paio di esempi.

Iniziamo proprio dal Dipartimento dell’interno, diretto da Alain Berset, che dispone di cinque addetti stampa al servizio diretto del consigliere federale socialista. L’Ufficio federale della sanità pubblica, che fa parte dello stesso dipartimento, può avvalersi invece del lavoro di altri quattro portavoce. Altro esempio: al Dipartimento dell’ambiente, dei trasporti e dell’energia e delle comunicazioni del neo-consigliere federale Albert Rösti i portavoce sono invece sei. In questo dipartimento si trova tra gli altri anche l’Ufficio federale dell’ambiente, che a sua volta dispone di altri cinque addetti stampa. E ci fermiamo qui, ma la lista potrebbe essere ben più lunga. Si tratta solo di alcuni esempi per capire quanto sia ampio lo sforzo comunicativo del Governo e dei singoli dipartimenti. Un vantaggio per la trasparenza e l’informazione ai cittadini. Al tempo stesso possono però emergere anche degli aspetti problematici perché il moltiplicarsi di esperti in comunicazione accresce anche il rischio di fughe di notizie. E questo in un contesto mediatico che negli ultimi anni si è fatto più competitivo e nervoso, con giornalisti costantemente alla caccia di primizie.

Ma torniamo al caso «B&B» perché al di là delle indagini in corso, sia a livello penale che politico, ci sono un paio di interrogativi che al momento non hanno ancora trovato una risposta. Alain Berset ha affermato davanti ai suoi colleghi di Governo di non sapere, di non essere a conoscenza dello scambio di informazioni gestito a quanto pare in modo piuttosto sistematico da Peter Lauener, il suo ex responsabile della comunicazione, in favore del gruppo mediatico Ringier. E fin qui gli si può far fiducia, visto che questa stessa «ritrovata fiducia» è stata sottolineata mercoledì anche dai suoi sei colleghi di Governo. C’è insomma una sorta di timbro istituzionale sulla sincerità del ministro socialista. Resta però da capire come mai, davanti alle ripetute anticipazioni del «Blick», Berset non sia intervenuto per scoprire l’origine di questi «scoop». Ma a ben guardare non solo lui avrebbe dovuto porsi questo tipo di domanda. Non toccava forse anche ai suoi sei colleghi di Governo sollevare qualche dubbio su quanto stava capitando a livello comunicativo? E non era compito anche dei partiti e dei parlamentari federali fare altrettanto? Forse tra di loro qualcosa si saranno pur detti ma a ben guardare nulla allora è stato fatto per capire dove fosse la falla e per tentare di frenare le continue anticipazioni del «Blick».

Insomma, rimangono delle zone d’ombra su cui le indagini in corso cercheranno di far luce. Con una certezza: malgrado le critiche più volte emerse in questi anni, anche con proteste di piazza, diversi studi attestano che la Svizzera se l’è cavata piuttosto bene nella gestione della pandemia. Senza volerle giustificare, vien dunque da chiedersi se quelle fughe di notizie abbiano davvero intralciato il lavoro del Consiglio federale e l’efficacia delle decisioni adottate. E intaccato la collegialità governativa. Collegialità che è stata messa alla prova in queste ultime due settimane e che i membri del nostro Governo si sono detti pronti – con fiducia ritrovata – a ristabilire. Perché in fondo i problemi veri e concreti del Paese sono decisamente altri.