Carola, capitana coraggiosa

Il caso Sea Watch 3 – Isolata dal suo contesto giuridico, la scena nel porto di Lampedusa con l’arresto della comandante, riassume il clima tesissimo che la questione migratoria ha generato in Italia e in Europa
/ 08.07.2019
di Alfredo Venturi

L’avevano arrestata subito dopo il contestato approdo, ma dopo tre giorni la giudice per le indagini preliminari Alessandra Vella le ha restituito la libertà. Carola Rackete, comandante della Sea-Watch 3, è stata alleggerita delle due accuse che ne avevano determinato l’arresto: resistenza a nave da guerra e resistenza a pubblico ufficiale. Rimane l’imputazione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. È dunque prevalsa nella decisione della giudice una prassi consolidata, secondo la quale in caso di emergenza il salvataggio ha priorità assoluta. L’episodio della Sea-Watch, che batte bandiera olandese ma appartiene a una organizzazione non governativa tedesca che la impegna lungo le rotte fra Libia e Sicilia, chiama in causa proprio quella prassi. E anche l’eterno dibattito sui diritti umani, nello specifico quella specie di diritto consuetudinario internazionale che è la cosiddetta «legge del mare»: prima di tutto salvare chi è in pericolo.

 Con quaranta profughi a bordo, la Sea-Watch ha ignorato l’ordine di tenersi al largo ed è entrata nel porto di Lampedusa. La comandante è stata arrestata per avere violato la legge forzando il blocco. Si tratta di una norma voluta da Matteo Salvini e contenuta nel decreto sicurezza bis, che autorizza il governo a impedire la navigazione nelle acque territoriali italiane. Carola dichiara di avere agito, ben conoscendo il rischio che correva, perché la situazione a bordo era critica e alcuni fra i profughi, stremati da settimane di vagabondaggio in mare, erano tentati dal suicidio. Stato di necessità dunque, quello stesso di cui chi l’accusa nega l’esistenza. Dopo la decisione della giudice, secondo cui il decreto sicurezza bis non può applicarsi ai salvataggi, un irritatissimo Salvini, ignorando il principio della separazione dei poteri, parla di sentenza «vergognosa e politica» e della necessità di riformare la giustizia. Inoltre annuncia l’espulsione immediata. Ma immediata non potrà essere: Carola è libera, ma essendo tuttora indagata l’attende l’avvio del procedimento.

Una causa di forza maggiore ha dunque indotto la comandante al gesto disperato e coraggioso cui è seguito il rapido sbarco degli ospiti che saranno distribuiti fra Germania, Francia, Portogallo, Finlandia e Lussemburgo, e l’altrettanto rapido arresto della «capitana». Un’altra colpa le viene addebitata, quella di aver tentato, durante la manovra di attracco, di speronare una motovedetta della Guardia di Finanza che si era messa di traverso. Lei ammette di avere forzato la situazione ignorando il divieto, ma respinge quest’altra accusa: non voleva investire l’imbarcazione, è stato un errore di manovra del quale si scusa. Anche su questo punto la giudice per le indagini preliminari le ha dato ragione. Di diverso avviso i finanzieri: veniva dritto verso di noi, per poco non ci ha schiacciati contro la banchina.

Isolata dal suo contesto giuridico, quella scena nel porto di Lampedusa riassume con plastica efficacia il clima tesissimo che la questione migratoria ha generato in Italia e nell’intera Europa. Quando Carola è comparsa, impassibile, fra gli agenti che l’hanno fatta scendere dalla nave per portarla via in auto, da alcune decine di persone radunate sulla banchina sono partiti segnali decisamente contrastanti. Da una parte un applauso di stima e di incoraggiamento, dall’altra un coro di ingiurie. Come regolarmente accade quando si tratta di una donna, la contestazione ha imboccato i binari del più becero sessismo. Accanto a chi si limitava a contestarle un comportamento ritenuto inopportuno c’era chi le augurava niente meno che lo stupro. Insulti di analoga volgarità hanno salutato la decisione della giudice Vella.

Dai testimoni oculari dello sbarco, il compito di impersonare questi opposti sentimenti è poi passato alle reti sociali, letteralmente intasandole. Anche qui una netta spaccatura: da una parte chi plaude al coraggio della ragazza tedesca, dall’altra i soliti haters che si lasciano andare alle ingiurie più violente. Senza che nessuno, fra i dirigenti che chiedono una punizione esemplare, si senta in dovere di prendere le distanze da quegli eccessi. Ormai l’eccesso viene tollerato se non incoraggiato: la segretaria di uno dei partiti che appoggiano in materia di migrazioni la linea dura di Salvini, Giorgia Meloni dei Fratelli d’Italia, fin dalla vigilia dello sbarco aveva suggerito non solo di riportare i profughi al luogo di partenza, ma anche di affondare la nave.

La faccenda è resa paradossale dal fatto che i profughi della Sea-Watch non sono certo i soli a sbarcare in questi giorni sulle coste italiane. Nonostante le sfuriate di Salvini si registra uno stillicidio continuo di sbarchi alla spicciolata: seicento i nuovi arrivati nell’ultimo mese. Mentre la nave di Carola attraccava a Lampedusa, una piccola imbarcazione scaricava dodici tunisini poco distante dal porto. Qualche ora più tardi una motovedetta della Guardia costiera depositava sul territorio nazionale una cinquantina di persone. Ma di questo si preferisce non parlare, mentre si fa un caso della Sea-Watch perché rappresenta un capitolo della vicenda in corso da mesi, la guerra privata del vicepresidente del consiglio contro le organizzazioni non governative.

Non sono forse le ong, impegnate a raccattare naufraghi al largo della Libia per portarli in Italia, fiancheggiatrici dei mercanti di uomini? Se vogliono mettere in salvo quella gente, perché non se la portano a casa loro, per esempio in Olanda visto che la nave è registrata lassù, o in Germania, patria di Carola e del suo equipaggio? Così si risponde all’ondata di critiche piovuta sul governo italiano. Alle proteste di Parigi, che giudica «inaccettabile» la linea di Salvini, quest’ultimo replica: ma perché non aprite alle ong il porto di Marsiglia? La polemica è alimentata dal fatto che in materia di migranti nessuno in Europa ha la coscienza a posto. A Berlino l’ong Sea-Watch, armatrice della nave che porta il suo nome, critica Roma ma anche il governo federale, al quale fra l’altro chiede che certi battelli destinati all’Arabia saudita vengano dirottati verso i salvataggi nel Mediterraneo. L’Olanda dichiara che non aveva alcun obbligo di accogliere la nave con il suo carico umano, ma critica Carola per avere bussato alle porte dell’Italia: non poteva portare i naufraghi in Tunisia?

Mentre l’episodio della Sea-Watch accentua l’isolamento dell’Italia in Europa, proprio nel momento in cui è in discussione la fedeltà di Roma agli impegni di stabilità finanziaria, Salvini insiste nella sua crociata contro l’«invasione». In quella che è ormai una campagna elettorale permanente, con la prospettiva di un voto anticipato per il rinnovo del parlamento, questo continua a essere un elemento centrale del confronto. Incurante dei moniti di papa Francesco (lui che pure esibendo crocifissi e rosari si fa paladino dell’«Europa cristiana»), e dei richiami al dialogo e alla tolleranza del presidente della repubblica Sergio Mattarella, il ministro continua a battere su quel chiodo. Secondo i sondaggi la scelta funziona: la Lega è ormai stabilmente il partito di oltre un terzo degli italiani.

Ora ci si chiede dove una simile politica andrà a parare. Nessuno s’illude che le gestioni muscolari possano interrompere il fenomeno migratorio. È vero che la strategia dei porti più o meno chiusi, e dell’intesa con la Guardia costiera libica, ha ridimensionato i flussi (riducendo di conseguenza il numero assoluto delle vittime dei naufragi): ma molti in Italia e altrove si chiedono che senso abbia affidare il salvataggio a chi fa ripiombare quei derelitti nell’inferno della Libia, un paese straziato dalla guerra civile dove mancano le risorse per gestire i profughi ma non certo i maltrattamenti, le umiliazioni, le torture, e ora persino i missili che fanno strage nei centri di detenzione Questo aspetto del problema sta emergendo anche a livello ufficiale: la Libia non è un porto sicuro, ha detto qualche giorno fa il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Per la prima volta risuona nel governo italiano una voce che prende le distanze dallo scaricabarile fra Roma e Tripoli.