Caracas spacca il mondo

Crisi Venezuela – Stati Uniti da una parte, Europa quasi allineata suo malgrado, Cina e Russia dall’altra parte. E una certezza: in quell’area del mondo gli «esperimenti socialisti» sono tragicamenti falliti
/ 04.02.2019
di Federico Rampini

Il Movimento 5 Stelle ha scelto di riscoprire la sua anima di sinistra nel peggiore dei modi: assolvendo un tiranno paleo-socialista; bloccando il riconoscimento da parte del governo italiano di un’alternativa democratica alla guida del Venezuela. L’Italia è rimasta a guardare mentre tanti suoi concittadini – espatriati o italo-venezuelani con doppia cittadinanza – sono stritolati da un’emergenza umanitaria e dalla morsa brutale di un regime sanguinario.

Non sono solo i grillini a rispolverare le tradizioni più oscene della vetero-sinistra, del socialismo-zombie. Un tweet «sfuggito» al più importante sindacato italiano esprimeva solidarietà al dittatore venezuelano Maduro, contro le «ingerenze internazionali». L’infortunio era talmente clamoroso che presto venne seguito da una smentita imbarazzata, ma la posizione ufficiale della Cgil resta quella di un’assurda equidistanza: da una parte si chiede al regime repressivo il rispetto dei diritti umani, d’altra parte c’è la denuncia delle presunte interferenze dall’estero. Cioè, ovviamente, dagli Stati Uniti. Gli adolescenti venezuelani arrestati e torturati dalle squadracce poliziesche di Maduro, sentitamente ringraziano la Cgil che li considera pedine inconsapevoli di Washington. Triste destino per quello che fu un grande sindacato ai tempi di Luciano Lama e Bruno Trentin.

La storia, disse Karl Marx, si ripete sempre due volte: prima come tragedia poi sotto forma di farsa. È una tragica farsa lo spettacolo della sinistra occidentale che tenta di coprire gli orrendi crimini di Maduro; e fa le acrobazie per attribuire a un disegno golpista americano quella che è una crisi tremenda in atto da molti anni per esclusiva colpa del regime Chavez-Maduro.

Donald Trump ha questo dono magico e malefico: ipnotizza e poi rende imbecilli i suoi oppositori, che pur di dargli contro finiscono col mentire quasi quanto lui. Una parte della sinistra occidentale – solo una parte, per fortuna – ha rispolverato slogan degli anni Sessanta come se Maduro fosse un giovane Fidel Castro o Che Guevara (peraltro, il Fidel Castro versione anziana aveva già tradito i suoi ideali di gioventù, costruendo un regime di corruzione e repressione).

Negli Stati Uniti è dovuto scendere in campo l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Barack Obama, Ben Rhodes, per ammonire la sinistra americana a non cadere nella trappola. «I democratici – ha scritto Rhodes con tono allarmato sul «Washington Post» – non devono farsi travolgere dalla loro rabbia verso Trump, e rimangiarsi il sostegno al popolo del Venezuela, alla sua dignità, al suo bisogno di democrazia».

Altrove, il danno era ormai fatto: il leader del partito laburista inglese Jeremy Corbyn, che fa di tutto per essere una macchietta caricaturale dei nostri anni Sessanta, ha abbracciato la causa «anti-imperialista» di Maduro, schierandosi con tutti gli autocrati del pianeta e avallando le loro imposture.

Il Venezuela con «due presidenti» spacca il mondo intero. La situazione più drammatica ovviamente è quella sul terreno: dove si moltiplicano le proteste e gli arresti di massa, le violenze di esercito e polizia, le sofferenze di una popolazione ormai allo stremo. Ma è singolare anche l’impatto della crisi a livello internazionale. La tensione può ricordare i peggiori momenti della guerra fredda, con l’America da una parte, l’Europa «quasi» allineata suo malgrado, Russia e Cina dall’altra parte coi loro alleati. Ma questa non è una riedizione della crisi di Cuba che nel 1962 portò il pianeta sull’orlo di un conflitto nucleare. Troppe cose sono cambiate da allora, e il cambiamento più importante non è Trump. La differenza sostanziale in quell’area del mondo è che gli «esperimenti socialisti» sono falliti tragicamente, e una maggioranza dei paesi latinoamericani ha deciso di condannare i loro feroci epigoni.

Maduro tenta di ravvivare il patriottismo delle «repubbliche bolivariane», denuncia «un intervento gringo». Ma la sua retorica patriottarda è una beffa ideologica, sempre più logora, per mascherare i crimini contro il suo popolo. L’erede di Chavez è riuscito a ridurre alla fame una nazione straricca di petrolio, ha costretto alla fuga tre milioni di suoi concittadini (non stupisce che con lui solidarizzi Assad…), ha scatenato un’iperinflazione che galoppa al ritmo dei «dieci milioni per cento» (mai vista nella storia). Nelle manifestazioni di protesta contro di lui trecento sono stati uccisi dalla polizia, 13.000 sono gli arrestati.

Ha stravolto la Costituzione, ha esautorato il Parlamento, ha riempito le carceri di oppositori inclusi rappresentanti eletti del popolo. L’unica ragione per cui Maduro sta in piedi? Ha regalato l’economia del Venezuela a un trio composto dal suo esercito, Russia, e Cina. Dopo anni in cui i protettori esteri del dittatore hanno ignorato la sorte del suo popolo – e gran parte dell’opinione pubblica internazionale si è voltata dall’altra parte – ora Vladimir Putin denuncia una «violazione dei principi della legalità internazionale», accusa l’America di orchestrare un golpe.

Ma la legalità è stata violata alle ultime elezioni. Non a caso la maggioranza dei governi latinoamericani si sono rifiutati di riconoscere la rielezione di Maduro per un secondo mandato, hanno disertato le cerimonie d’insediamento, in certi casi hanno chiuso le ambasciate. Che Trump evochi la possibilità di un intervento militare Usa perché una crisi internazionale può distrarre dai suoi guai interni (lo shutdown), nulla toglie al dramma umanitario del Venezuela. Anche il mite progressista che governa il Canada, Justin Trudeau, ha deciso di riconoscere come vero presidente a Caracas il 35enne Juan Guaidó. Anche il premier spagnolo, caso encomiabile di un leader di sinistra raziocinante, ha fatto la stessa scelta.

L’Unione europea, sempre indecisa a tutto, ha preso una posizione inutilmente più sfumata, ha tergiversato per molti giorni (anche per colpa del governo italiano). Ha detto che la «voce del popolo non può essere ignorata», ha condannato Maduro, senza riconoscere inizialmente Guaidó. L’unico che si è spinto un po’ più avanti è Emmanuel Macron che ha detto di «sostenere la restaurazione democratica, contro l’elezione illegittima di Maduro». Le sottigliezze diplomatiche degli europei interessano poco, perché la loro voce in quella parte del mondo conta sempre meno.

Non siamo a un remake della crisi di Cuba nel 1962, perché i rapporti di forze politici in America latina oggi sono a favore degli Stati Uniti; e nell’ipotesi di un intervento militare americano la Russia non avrebbe molti mezzi per rispondere. Tuttavia l’arrivo di soldati Usa a Caracas sarebbe pericoloso. Così come sono probabilmente controproducenti le sanzioni sul petrolio venezuelano, se non vengono accompagnate da aiuti economici concreti alla popolazione. Non bisogna offrire un’ultima occasione a Maduro per giocare la carta falsa del patriottismo, della mobilitazione contro l’imperialismo yankee. Una parte del suo popolo, e probabilmente la maggioranza dei militari, farebbe quadrato attorno all’autocrate, se mai dovesse vedere a Caracas delle divise dello Zio Sam. La via preferibile è un’altra: che Guaidó si appelli ai 14 paesi del Gruppo di Lima, perché intervengano a difendere il popolo del Venezuela e a salvarlo da una tragedia.

Maduro è circondato da grandi nazioni vicine, ben più democratiche della sua, che tutte insieme possono agire per ripristinare la legalità e i diritti umani in un paese che ha sofferto già troppo. Mentre scrivo, i media internazionali danno qualche credito a un’altra ipotesi: un compromesso tra i «due presidenti», con Maduro disponibile a convocare nuove elezioni legislative (non presidenziali, però). A giudicare dai precedenti, questa rischia di essere l’ennesima astuzia di Maduro per rimanere aggrappato al potere, rinsaldare l’alleanza coi militari, e ingannare ancora una volta le speranze del suo popolo.