Non c’è dubbio che, fra corsi e ricorsi della storia economica, le Nazioni si siano significativamente trasformate, vivendo dapprima il passaggio da sistemi economici più strettamente legati all’agricoltura fino ad altri a carattere spiccatamente industriale. Attualmente, è sufficiente soffermarsi sui dati relativi al valore aggiunto (rispetto al PIL), cioè sull’incremento valoriale produttivo rispetto al periodo precedente, attribuibili al settore agricolo per comprendere quanto grande sia stato il suo decremento di rilievo (perlomeno, numerico) all’interno della produzione nazionale. Che ciò sia «giusto» (o meno) non può qui essere indagato, sebbene aspetti quali salvaguardia del territorio grazie all’attività agricola o mantenimento in vita di quel sostrato culturale connessovi costituiscano tuttora un apporto alla società non indifferente (ma spesso non appieno contemperato nelle principali misure economiche).
Ciò detto, è fuori discussione che il grande sviluppo delle economie moderne (che trova il suo approssimativo inizio intorno al 1760 fino al 1820/1840) sia perlopiù attribuibile a meccanizzazione industriale, divisione strutturata del lavoro ed avanzamento tecnico, cioè quei fattori ormai imprescindibili per ogni società moderna. Da tempo, però, è il settore terziario ad avere avuto «la meglio» rispetto ai suoi competitor, presentando non soltanto un’incidenza maggiore in termini di valore aggiunto rispetto al PIL ma anche vigorosi tassi di crescita. Ne è risultata una transizione dal prodotto fisico quale principale forma di output economico ad una prestazione sempre più immateriale. Con essa, quindi, sono cadute quelle certezze ormai «scontate» – ancor più, se a ciò si aggiunge la galoppante provenienza digitalizzata di una parte stessa del valore aggiunto. Basti pensare alle cosiddette IT-companies, cioè aziende a carattere prettamente tecnologico e spesso anche start-up, con il loro focus difficilmente assimilabile alle aziende «tradizionali» (a cui la prevalenza delle generazioni è stata abituata). Difficilmente si sarebbe potuto immaginare fino a qualche anno fa che si sarebbe potuto contribuire al PIL nazionale mediante «semplici» strumenti quali motori di ricerca, social media o app più svariate.
La risposta ancora da individuarsi, però, concerne la direzione nel prossimo futuro, che potrebbe porre la società post-moderna davanti al quesito se la nuovissima tecnologia (ed il relativo immaterialismo del suo risultato economico) non siano in fin dei conti sovrabbondanti ‒ quindi, anche il settore reale poggiante su basi «concrete» (e, perciò, da sempre reputato più solido rispetto alle volatilità di quello finanziario) si stia progressivamente indebolendo, finalizzandosi a valori sempre meno tangibili. Se è arduo reperire risposte certe a questi interrogativi, è altresì probabile che con l’avanzamento tecnologico (magari anche discontinuo) essi si manifestino ancor prima di quanto ipotizzato. All’occorrenza, si dovrà prendere coscienza del fatto che se «progredire» da un punto di vista tecnologico rappresenta perlopiù una situazione win-win (cioè di mutuo beneficio), lo stesso settore produttivo dovrà essere preservato da troppa vacuità di trend (e dall’instabilità fisiologica connessavi), creando le premesse per una «bolla» dai caratteri totalmente nuovi.
Già nel 2000 si assistette allo scoppio della cosiddetta dot-com bubble, che si contraddistinse fino a poche settimane prima per un incremento del valore delle aziende legate ad Internet ed ai settori collegati per poi vanificarsi (creando gravi disequilibri fra attori economici). Naturalmente, di fronte al fenomeno odierno ribattezzabile «Internetcrazia», sarebbe difficile stimare un qualche impatto, che anche un mero ridimensionamento di certi trend tecnologici (oltre che sociali) potrebbe avere in termini occupazionali e, soprattutto, consumistici. Aprendo il «baule» delle metafore, l’impressione è che la società moderna stia «iperaccessoriando» una struttura già in gran parte funzionante, sebbene abbisogni di cure manutentive: l’importante è non divenire succubi di tali «ritocchini» e dare loro da subito il giusto valore. Sarebbe anacronistico immaginare un mondo, che vada nella direzione opposta di quella ormai «fisiologica», cioè fatta di interconnessione economico-politica e sociale oltre che dagli elevati standard tecnologici: ci si deve, però, anche rendere conto che molte delle innovazioni più recenti poco hanno a che fare con lo scopo ultimo di un generale miglioramento delle condizioni di vita. Se 1) si fosse effettivamente dinnanzi ad una «bolla» e 2) quindi dovesse scoppiare, l’economia globale dovrebbe affrontare una crisi dai tratti nuovi.