Campane a morto per il clintonismo

La disfatta dei democratici - A perdere non è stata soltanto Hillary, è il modello degli ultimi venticinque anni della sinistra americana che è stato rifiutato e che ha consegnato il Paese nelle mani del trumpismo
/ 14.11.2016
di Paola Peduzzi

Ora i clintoniani ammettono che sapevano delle fragilità insormontabili, della questione email che non se ne sarebbe mai andata, della difficoltà di battagliare ogni giorno per far sì che Donald Trump non si normalizzasse, non diventasse semplicemente il «candidato repubblicano». Ora che tutte le crepe si sono aperte insieme, nella notte infernale del conteggio dei voti delle presidenziali americane, non si nega più, non si nasconde più, Hillary Clinton ha perso, Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti, si può soltanto trovare un punto da cui ripartire. 

Hillary non è la persona giusta per farlo, naturalmente. Ci ha messo ore per trovare la forza di salire su un palco e commentare pubblicamente quest’umiliazione assoluta, mentre tutto il suo staff piangeva indefesso – John Podesta, l’uomo delle email che hanno raccontato il sistema-Clinton, il consigliere fedele che nella notte della sconfitta è uscito sul palco del Javits Center quando nessuno cantava più, e ci si guardava attoniti, gli occhi in basso per l’incredulità, gli occhi in alto verso quel soffitto di cristallo intatto, e ha detto: «Contiamo ancora, andate a casa, non è finita». Era invece finita, di lì a poco Hillary avrebbe telefonato a Trump per congratularsi per la sua vittoria.

E ora che Trump ha ricominciato a chiamarla «secretary», e non più «corrotta», Hillary non riesce a pensare a un futuro, rassicura i ragazzi e le bambine dicendo che bisogna insistere, e crederci, e intanto ingoia lacrime, lei che è la donna che meglio si è rialzata dalle sconfitte dice di essere onorata di aver avuto l’occasione di provare a diventare presidente, ed esce di scena: non pensa a dove sarà domani, la donna più resiliente d’America è crollata, e non si pone il problema di far finta che non sia così. La ripartenza oggi dei democratici è fuori da casa Clinton, per quanto la tragedia si sia consumata lì e le indagini debbano necessariamente essere condotte lì, vicino al cuore spezzato di questa dama del Partito democratico americano battuta due volte da due outsider, Barack Obama nel 2008, Donald Trump nel 2016.

Che cosa è andato storto? Prima di tutto la strategia dei numeri. Robby Mook, capo della campagna di Hillary voluto da David Plouffe, che già era stato l’architetto elettorale dell’obamismo, si è affidato alla «ground machine», a quella enorme macchina elettorale clintoniana che convince gli elettori porta a porta a recarsi nelle urne. Da un punto di vista strettamente organizzativo, questo era l’elemento di forza del team Clinton, rispetto all’improvvisazione trumpiana: le elezioni sono una cosa semplice, si diceva, si tratta di accompagnare l’elettore al seggio. Sulla base di questa presunzione e di una serie di sondaggi e di interpretazioni a senso unico (a senso hillariano), Mook ha continuato a ignorare i segnali contrari al clintonismo che si ammonticchiavano attorno a Hillary.

Ora è facile accorgersi di tutti i dettagli, delle campagne pubblicitarie fatte da Trump in Winsconsin, per esempio, mentre la Clinton non si è nemmeno mai presentata nello Stato tanto era sicura di vincerlo. Ora la lista dolorosa delle sviste sarà compilata con metodo dal Partito democratico, ma la verità è che Mook, giovane ragazzo con gli occhiali e la passione dei big data, è stato travolto dalla più colossale sbandata mai presa dai media e dai sondaggi. Ci spiegheranno come è potuto accadere, com’è che gli algoritmi perfetti collassano tutti e tutti insieme su un’elezione così seguita e scandagliata come quella americana, ma intanto è chiaro che è stato un pregiudizio a guidare la strategia, l’idea che l’impresentabilità del personaggio Trump fosse superiore a qualsiasi altra argomentazione. 

Mook naturalmente non è l’unico responsabile, l’abbaglio è stato di tutto il team clintoniano, che è rimasto compatto e uguale per tutta la campagna (Trump ha cambiato campaign manager tre volte), ma quando Podesta dice che Mook è il più giovane e il più talentuoso dei dirigenti di campagne elettorale che ci sono in America, si sente sotto lo stridore della disperazione: che futuro ha Mook dopo una sconfitta così? E che futuro hanno gli altri? Ci sono tanti tormenti interni, dal dramma personale e professionale di Huma Abedin, la «seconda figlia» di Hillary, che in un anno ha perso marito e carriera, alle prospettive incerte della Clinton Foundation, ma l’interrogativo è soprattutto politico. 

Il clintonismo rappresenta il modello di successo per la sinistra americana e occidentale degli anni Novanta: libero mercato, apertura, concorrenza, liberalismo e pluralismo. Bill Clinton è il fondatore di questo approccio che ha rivoluzionato la sinistra, l’ha distaccata dalla sua tradizione e l’ha resa garante di un decennio di benessere. Nel frattempo il Partito democratico ha completato una trasformazione che era in atto da tempo e che l’ha reso sempre più alieno alla middle class, ai lavoratori che erano da sempre il suo cuore, e l’ha avvicinato invece ai professionisti e alle cosiddette élite. Secondo una celebre definizione, sono nati i «Limousine liberal», più ricchi, più innovatori, più cittadini, e l’allontanamento dalla middle class si è definitivamente consumato. Il clintonismo inizialmente è stato la voce di questa parte della popolazione e della sua ambizione di trasformarsi e di afferrare il sogno americano ma progressivamente è stato percepito come establishment, élite, del tutto disconnesso dalla cosiddetta «pancia». Barack Obama, presidente in uscita, ha interpretato in modo più radicale il clintonismo, se n’è in molti ambiti distaccato (in politica estera certamente), ha raccolto grande consenso ma ha da sempre confuso la propria grande abilità oratoria con una reale empatia con l’elettorato.

Obama è un’icona, un simbolo, quasi un guru, ma rappresenta l’élite tanto quanto Bill e Hillary Clinton. È comunque un professore alla Casa Bianca. Raccogliendo la palla dell’obamismo, con già addosso tutto il clintonismo possibile, Hillary è inciampata. Ed è rimasta schiacciata da tutto quel che non ha compreso negli americani, nella retorica antiglobalizzazione, nell’impoverimento. Obama oggi dice che «il sole sorge ogni giorno», che si vince e si perde e che adesso è necessario gestire una transizione collaborativa, ma non è vero che a perdere è stata solo Hillary. Non si può trascurare il fatto che in otto anni di presidenza Obama, al primo appuntamento elettorale, la sinistra si è lasciata attrarre da Bernie Sanders e da una visione anni Sessanta del mondo, mentre la destra una visione così vetusta l’ha portata addirittura alla Casa Bianca. Le responsabilità sono comuni, e riguardano un enorme abbaglio culturale, che ha impedito di vedere che il continuo scagliarsi contro il sistema stava diventando – è diventato – un movente elettorale potentissimo. 

Più blandamente c’è chi dice che dopo otto anni di presidenza democratica ci vuole un’alternanza e che ha fatto più, nella coscienza e nel portafoglio degli americani, l’aumento delle polizze di copertura sanitarie a partire da questo autunno – conseguenza dell’Obamacare – che tutto il chiacchiericcio di email, video, scandali e «commenti da spogliatoio». Di certo avrà contato anche l’Obamacare, ma come dicono molti esponenti del Partito – affranti, dovunque ti volti c’è un liberal che piange e si dispera – è la prospettiva che deve cambiare. 

Il modello degli ultimi 25 anni della sinistra americana è stato rifiutato, e non soltanto dal maschio-bianco-arrabbiato, simbolo del trumpismo, ma anche da sua moglie, che alla fine a votare Hillary non ci è andata, e non si è sentita affatto solidale con la prima donna presidente (e nemmeno infastidita dal modo con cui Trump tratta le donne: è stato più facile eleggere un uomo nero che una donna bianca). Dopo tanti anni di successo, ora il Partito democratico si trova a parlare ai più ricchi e ai più poveri, e a qualche minoranza: il resto è appannaggio dei repubblicani, anzi, sarebbe meglio dire del trumpismo. Hillary ha le sue colpe, anche personali, non avendo mai davvero scaldato cuori che avevano bisogno di rassicurazioni, ma non è soltanto il clintonismo a morire – per sempre, ormai – in questo novembre 2016. L’eredità di Obama resterà offuscata, e nessuno crederà più alla favola della sinistra che sa parlare alla middle class, almeno finché non si trova un’altra formula da offrire. E che sia altrettanto liberale è probabilmente, oggi, da escludere: Bernie Sanders docet.