Cambio della Guardia

Boris Johnson – Il successore di Theresa May conferma l’obiettivo di completare la Brexit per il 31 ottobre nel suo primo discorso da premier Tory di fronte alla Camera dei Comuni. Anche senza «deal»
/ 29.07.2019
di Cristina Marconi

Nel dichiarare guerra ai «profeti di sventura» che non credono che il «malfermo gigante» britannico possa rialzarsi, uscire dall’Unione europea e tornare a suscitare l’ammirazione del mondo intero, il neo-premier Boris Johnson ha voluto segnare un cambio di passo netto con gli anni letargici di Theresa May. E lo ha fatto con un discorso tagliente ma tipicamente privo di dettagli – «realizzeremo la nostra ripetuta promessa di uscire senza se e senza ma il 31 ottobre con un accordo nuovo, un accordo migliore» e, ovviamente, «senza controlli alla frontiera con l’Irlanda» – e con un rimpasto di governo che la stampa britannica, elettrizzata da quest’atmosfera da Trono di Spade, ha definito un «bagno di sangue».

Ed è vero che con una quindicina di ministri accompagnati alla porta o esortati ad andarsene e l’arrivo di una squadra formata da tutti i pezzi da novanta dell’euroscetticismo degli ultimi anni, nello scenario attuale c’è una tragica penuria di elementi rassicuranti e il rischio di un no deal per rispettare la scadenza di Halloween appare sempre meno remoto. Ma è anche vero, e non può essere ignorato, che la strada tracciata dalla May non poteva essere percorsa ad oltranza e che uno sblocco era necessario. La scelta di Johnson equivale a calare l’asso, un asso molto britannico e incomprensibile al mondo esterno: il Regno Unito odia i burocrati e ha un disperato bisogno di tornare a credere nella propria eccezionalità e non è escluso che Johnson, che incarna in pieno questo spirito, possa riuscire a portare a casa il risultato che alla grigia May non è riuscito, in termini neppure troppo lontani.

Il governo Johnson è vagamente distopico. Manca solo Nigel Farage (se fosse stato eletto probabilmente avrebbe coinvolto anche lui, chissà) dal novero degli eurofobi chiamati a formare l’esecutivo del biondissimo premier, ma questa scelta potrebbe essere letta come una maniera per neutralizzare il rischio di dover affrontare le loro critiche durante gli inevitabili compromessi che andranno fatti con Bruxelles nei prossimi mesi. Più che un incantatore di serpenti, Boris sta scommettendo di riuscire a essere un incantatore di vipere in quello che ha definito il governo più multietnico della storia del Paese. Ha nominato Sajid Javid, ex ministro dell’Interno ed ex banchiere di origine pakistana, suo cancelliere dello Scacchiere, il ruolo più importante nel nuovo esecutivo. Un remainer, come pure il chief whip Mark Spencer, poco noto ma universalmente amato.

Per il resto, Boris ha chiamato con sé Dominic Cummings, la mente della campagna del Leave, interpretato da Dominic Cumberbatch in un fortunato film che ripercorreva la strada verso la vittoria al referendum, come consigliere speciale: Cummings è una mente sottile e imprevedibile, odiato dagli euroscettici della vecchia guardia che non ha perso occasione di sbertucciare, e la sua nomina fa pensare che Boris non escluda di dover far fronte a elezioni o a un secondo referendum nel prossimo futuro. A lui si deve il riuscito slogan «Take back control», «riprendersi il controllo», con cui il fronte pro-Brexit è riuscito a convincere il 52% dell’elettorato nel 2016.

Agli Esteri Johnson ha nominato Dominic Raab, un altro euroscettico convinto, ex ministro per la Brexit e anch’egli aspirante premier, mentre agli Interni ha messo Priti Patel, quarantasettenne thatcheriana di origine indiana, visceralmente avversa a Bruxelles. Andrea Leadsom è diventata ministro per le Imprese e l’incredibile Jacob Rees-Mogg, deputato eurofobo dall’aspetto vittoriano, ha preso il suo posto come Leader della Camera. E anche a Michael Gove, arcirivale, è stato dato un ruolo di coordinamento importante nel governo.

Ma sono molti coloro che non hanno aspettato che fosse Boris Johnson a mandarli via e si sono dimessi come forma di protesta verso il possibilismo che il nuovo inquilino di Downing Street ha dimostrato nei confronti del no deal: Philip Hammond, cancelliere dello Scacchiere della May, ha sottolineato in una lettera di aver lasciato al nuovo governo «una vera scelta, una volta raggiunto l’accordo sulla Brexit»: tagliare le tasse, aumentare la spesa, ridurre il debito o aumentare gli investimenti, tutte cose impensabili negli anni dell’austerità e impraticabili qualora si dovessero affrontare le conseguenze di un’uscita dalla Ue con le regole del Wto. Il suo successore Javid dovrebbe puntare su politiche espansive per cercare di attutire lo shock della Brexit. Di qualunque Brexit si tratti.

L’era Johnson ha qualcosa di inevitabile. Sono ormai decenni che la sua zazzera bionda incombe sul dibattito politico britannico: da giornalista, da deputato o da sindaco di Londra, Boris Alexander De Pfeffel Johnson, nato bene, anzi benissimo a New York nel 1964, ha sempre usato lo strumento dell’esagerazione per farsi notare, odiare e poi eventualmente perdonare grazie a quella gigioneria che ha fatto cadere tra le sue braccia molte donne e ora, volente o nolente, un intero Paese. Di alto lignaggio, con sangue turco e russo nelle vene, Boris è figlio di Eton e di Oxford, di quel Bullingdon Club in cui lui, David Cameron e George Osborne distruggevano ristoranti, o almeno così narra la leggenda, con i loro smoking e i loro accenti aristocratici, indelebili anche nel latino parlato correntemente e nella cultura letteraria e soprattutto storica sfoggiata con disinvoltura. Come nella biografia che Johnson ha scritto di Winston Churchill nel 2015 con l’obiettivo, diciamo inconscio, di lasciare che fosse il lettore a trovare somiglianze tra lui e il grande statista, usando lo stesso stile arguto che si ritrova nei discorsi e che negli anni gli ha permesso di distogliere l’attenzione dai contenuti e di guadagnare cifre esorbitanti grazie alla sua penna.

Perché è sui giornali che il fenomeno Boris è iniziato ed è un po’ anche grazie a lui se Bruxelles, nel cuore degli inglesi, è diventato quel mostro tentacolare e irragionevole da cui scappare urlando: quando era corrispondente per il «Telegraph», i suoi articoli strabilianti ci misero poco a oscurare quelli tecnici e accurati delle altre testate, lanciando una moda in cui i tabloids si sono buttati a piene mani. Eppure il suo ingombrante padre, politico, scrittore e ambientalista, autore di un’autobiografia intitolata semplicemente Stanley, presumo, era stato funzionario europeo e i fratelli, da Rachel, bravissima ex direttrice dello storico magazine «The Lady», a Jo, biondo come il nuovo premier ma secchione e snello, hanno opinioni ben più sfumate sull’Europa. Ma Boris, che anche gli amici accusano di opportunismo, ha deciso anni fa di sostenere l’opzione più nazionalpopolare, ed è un peccato, perché con la sua retorica ficcante e la sua capacità di produrre slogan a profusione sarebbe probabilmente riuscito da solo a spostare l’ago della bilancia a favore del Remain.

Intanto ha raggiunto il sogno di una vita di arrivare a Downing Street e sarà anche il primo ad arrivarci da «fidanzato»: con lui si trasferirà, discretamente, anche la compagna trentunenne Carrie Symonds, così simile nel volto alla prima moglie Allegra e così diversa dall’attuale moglie non ancora divorziata, Marina, avvocato di grido e sorella di una portavoce della Commissione europea. La giovane comunicatrice ha fatto un buon lavoro con lui, pettinandolo e costringendolo a indossare completi meno brutti, ma resta valida la sua frase «Non hai cura di niente perché sei viziato», gli aveva detto, registrata dai solerti vicini di casa durante una lite. Lo pensano e lo sanno un po’ tutti da anni, ma chissà che questa sua fortuna sfacciata, da Gastone nella vita e nella politica, non sia proprio la ragione per cui il Paese lo vuole.