Kharkiv. Roman, ucraino di 28 anni, ha passato una settimana da prigioniero della Russia. Oggi fa parte di un’unità speciale del ministero dell’interno ucraino che si occupa di dare la caccia ai collaborazionisti che si sono schierati con le truppe russe durante l’occupazione. Non è un fatto insolito qui nella vasta area tra la città di Kharkiv, la seconda dell’Ucraina per popolazione, e il confine russo circa un’ora di strada più a nord – in tempi normali.
I russi hanno fatto irruzione fin dal primo giorno, il 24 febbraio, non sono riusciti a conquistare Kharkiv ma hanno preso tutto il territorio nei dintorni a nord e a est – e si sono ritirati soltanto all’inizio di maggio. Accompagniamo Roman con una pattuglia a Ruska Lozova, a pochi chilometri dalle posizioni dei russi. È un’area liberata da poco, non si vedono quasi civili e in compenso si vedono i soldati ucraini, seminascosti fra le case. Sulla strada passano i veicoli delle cosiddette unità Kraken, sono una costola di quel reggimento Azov che è diventato celebre in passato per le sue posizioni di ultradestra e poi per la sua resistenza a oltranza dentro l’acciaieria Azovstal di Mariupol.
Il tetto di una casa è in fiamme, ogni tanto arrivano colpi d’artiglieria russi, un proiettile ha colpito un tratto di gasdotto che adesso brucia con costanza in mezzo a un prato in mezzo a una nebbiolina bianca. A metà del giro con Roman e i suoi commilitoni arriva un proiettile di mortaio, così vicino che si sente il fischio. È una situazione di quasi liberazione, non del tutto compiuta. Come fate a riconoscere i collaborazionisti, quindi le persone che accusate di avere lavorato al fianco degli occupanti russi? «Hanno fatto tutto il possibile per convincere gli abitanti di questo villaggio ad appoggiare i russi. Continuavano a ripetere la loro propaganda, che gli ucraini filogovernativi sono nazisti, che a Kharkiv ci sono i nazisti e che i russi li hanno liberati dai nazisti. Gli ultimi li abbiamo presi alle cinque di questa mattina, a casa loro». Fate sempre questi arresti prima dell’alba? «A volte partiamo alle tre del mattino, o alle cinque, può essere in qualsiasi momento. Giorno o notte, dipende. Una volta siamo andati a Mala Rohan – un villaggio a est di Kharkiv, occupato a lungo dai russi – alle quattro del pomeriggio, ma c’era un bombardamento pesante in corso e siamo riusciti ad andare via soltanto alle due del mattino».
L’unità di Roman è fatta tutta da volontari, e sono locali perché così sanno muoversi meglio nelle decine di villaggi attorno a Kharkiv. Sul braccio hanno lo stemma delle «Slobozhanshchyna», la squadra speciale – ma la qualifica «speciale» non deve trarre in inganno, non sono teste di cuoio. Alcuni sono smilzi altri un po’ appesantiti, girano con scarpe da ginnastica e se vedono una scatola di munizioni lasciata dai russi la prendono per tenerla di scorta. Mezzi poliziotti, mezzi militari, alcuni usano un passamontagna. La loro specialità è muoversi nel paesaggio umano, traumatizzato e diviso, che resta dopo il ritiro dei russi. La zona di Kharkiv è russofona, per una parte della gente di qui la Russia è sempre stata una presenza naturale e forte, molte famiglie hanno parenti dall’altra parte del confine. Nei piani di Mosca Kharkiv avrebbe dovuto celebrare l’arrivo delle truppe russe con festeggiamenti e commozione, ma non è andata così. La città ha opposto una resistenza feroce e ha resistito a mesi di bombardamenti senza pause – come tutto il mondo sa, i tunnel della metropolitana sono stati trasformati in rifugi. Alcuni abitanti nei villaggi credevano che gli invasori avrebbero vinto e sono saliti sul loro carro, altri invece speravano, chiusi in casa, che finisse tutto. Adesso nemmeno tre mesi dopo i collaborazionisti hanno scoperto di avere fatto la scommessa sbagliata ed è cominciato il regolamento di conti.
«Quando gli occupanti sono arrivati – continua – hanno obbligato tutti a indossare fasce bianche al braccio. Le persone che rifiutavano di indossare la fascia bianca erano portate fino al confine e picchiate. I russi mettevano i civili in una fossa con le braccia legate dietro e un sacco sulla testa, li torturavano, li costringevano a svelare le nostre posizioni. Hanno preso tutti i giovani attorno ai trent’anni, alcuni li hanno rilasciati, di altri non si sa più nulla. Il capo di questo villaggio ha dato ai russi tutte le informazioni sui soldati che abitano in zona e che hanno partecipato alla guerra civile contro i separatisti nel Donbass e i russi hanno preso anche loro».
Non pensi sia strano andare a trovare questi collaborazionisti mentre ancora arrivano i colpi dell’artiglieria russa sulle case? «In effetti più lavoriamo vicino al confine, più alta è la possibilità di finire sotto il tiro dei russi. Non si può pianificare nulla con molto anticipo, certe volte lasciano le posizioni e poi tentano di ritornare. A volte facciamo le nostre operazioni a poche centinaia di metri dai russi e dai separatisti, il nostro mestiere è fare indagini ma a volte tocca combattere, ci finiamo in mezzo. Gli scontri possono essere brevi o lunghi, per questo ci portiamo dietro la maggior quantità di munizioni possibile quando andiamo a prendere qualcuno. E sempre tutto abbastanza pericoloso».
E cosa ne fate di questi collaborazionisti? «Li consegnamo ai servizi di sicurezza, sono loro poi a decidere che cosa fare, ma non è affar mio».