Alla fine i britannici avranno indietro i loro elegantissimi passaporti con la copertina blu scuro. Chissà se sarà sufficiente a tenerli soddisfatti quando dovranno riabituarsi a sfoggiare un po’ ovunque il loro incredibile talento per formare file ordinate: file alle frontiere, file negli aeroporti, file nei porti. Ma almeno per ora una parte consistente dell’opinione pubblica che ha votato a favore della Brexit è felice, confermando un vecchio sospetto: che l’uscita dalla Ue sia, agli occhi di molti, soprattutto una questione di simboli. Solo che gli aspetti tecnici lungamente nascosti sotto il tappeto da un governo timoroso e incapace di contraddire l’esito del referendum del 23 giugno del 2016 hanno iniziato a venire al pettine e se il 2017, almeno fino a dicembre, è stato l’anno della distrazione e dell’illusione – che uscire dalla Ue sia un’operazione facile, che il Parlamento sia disposto a farsi educatamente da parte e che a Bruxelles la posizione negoziale di Londra sia solidissima – il 2018 si presenta come il momento del confronto con la realtà, quello in cui dalle nebbie di un dibattito in cui non c’è stata la benché minima traccia di pragmatismo dovranno per forza iniziare ad essere fatte delle scelte, delineate delle mosse future.
Dopo la quiete natalizia, dovuta alla volontà da entrambi i lati della Manica di continuare a dare ossigeno alla stabilità ai limiti della paralisi garantita dalla premier Theresa May, qualcosa senz’altro cambierà, ma per ora i britannici hanno potuto trascorrere le feste sicuri che il passaporto, che per scelta loro torneranno ad usare molto spesso, smetterà di avere quel color vinaccia che l’inviso Leviatano europeo ha imposto loro dal 1988. Tagliente come al solito, la leader scozzese Nicola Sturgeon ha bollato la notizia con due parole: «Insular nonsense», «sciocchezze da isolani».
Ma il simbolismo nostalgico ha sicuramente più presa che i tecnicismi di una questione spinosa come il confine tra le due Irlande, tutt’altro che risolta con l’accordo raggiunto tra una premier Theresa May che i critici non a torto definiscono giunta alla resa totale e una Bruxelles che vede con soddisfazione come le esigenze di Londra si siano ammorbidite di molto. Il fatto che la May, come si direbbe in Italia, sia arrivata a «mangiare il panettone» dipende soprattutto dall’incapacità dei suoi oppositori di mettersi d’accordo in un momento in cui i Brexiters del partito iniziano ad avere qualche difficoltà a trovare una soluzione ai tanti dilemmi che il negoziato di uscita pone e in cui i Remainers aspettano che l’opinione pubblica inizi a dare segni di ripensamento su una scelta i cui vantaggi, passaporto blu a parte, non si vedono. Dopo cinque attentati terroristici, la catastrofe della Grenfell Tower, le elezioni che dovevano consacrarla e che l’hanno lasciata debole e zoppa, un discorso che doveva rilanciarla e che è finito con le lettere dello slogan sullo sfondo che cadevano una dopo l’altra mentre lei finiva di parlare con la voce rotta dalla tosse, la May è talmente debole da essere quasi in una posizione di forza.
Finora è stata l’onda lunga dello scandalo sulle molestie sessuali sceso dalle colline di Hollywood e giunto fino a Westminster con la sua capacità di illuminare vicende vecchie di una nuova sensibilità morale a darle più problemi: è stata costretta a sostituire l’ex ministro della Difesa Michael Fallon e a privarsi dell’efficacissima «frusta» di Gavin Williamson, il capogruppo Tory alla Camera, giovane e rampante, uno che teneva una tarantola viva in ufficio, e soprattutto ha dovuto fare a meno dell’uomo cardine della seconda fase della sua premiership, quella seguita alle elezioni di giugno: Damian Green, il suo vice scaltro e affidabile, influente e europeista, è finito al centro delle accuse di una giornalista di 31 anni, Kate Maltby, – mani sul ginocchio, messaggi blandamente allusivi, tutto il repertorio di cose che le donne, nel 2017, hanno deciso che non accetteranno più – e, soprattutto, di alcuni poliziotti che asseriscono di essere certi che usasse il suo computer di lavoro per guardare migliaia di immagini pornografiche. La May, esprimendo il suo rammarico, è stata costretta a lasciarlo andare a pochi giorni dal Natale, quando i suoi successi di dicembre le hanno dato quel minimo di vigore politico per resistere ad una perdita che non solo la danneggia, ma che la costringerà ad aprire il 2018 con una manovra politica delicata: un rimpasto, l’ennesimo, da condurre Manuale Cencelli alla mano, per garantire gli equilibri da chi vuole restare in Europa e chi no.
È dalle elezioni dell’8 giugno scorso, in cui la May non ha avuto la maggioranza ed è stata costretta ad affidarsi ad alleati scomodi come gli unionisti nordirlandesi del DUP che si parla di una sfida alla leadership di Downing Street. I candidati non mancano e i più scalpitanti come Boris Johnson non hanno perso occasione per disseminare la strada accidentata percorsa dalla premier di nuovi inutili ostacoli, con la scusa di difendere la causa di una «hard Brexit» che continua a garantire un’aura da difensore della patria che, in un contesto in cui chiunque provi a dire qualcosa di pragmatico sull’impatto della Brexit finisce con l’essere accusato di alto tradimento, conviene proteggere affidandosi ad un sistema infallibile: stare lontani dal dossier, non occuparsene mai davvero, continuare solo a parlarne in maniera astratta o criticando l’operato degli altri.
Basti pensare alla parabola di David Davis, ministro per la Brexit che un tempo era tra i più accaniti euroscettici e che ora mostra lo smarrimento tipico di chi è in mezzo ad un percorso di conversione ancora non del tutto concluso. A dicembre ha ammesso che non erano stati fatti studi sulle conseguenze dell’uscita dalla Ue sui vari settori dell’economia e, quando li ha poi frettolosamente pubblicati prima di Natale, è emerso che erano generici e leggeri come una pagina Wikipedia – la Gran Bretagna è un’isola e le sue «forti tradizioni mercantili navali possono essere fatte risalire a secoli addietro» si legge in un passaggio particolarmente illuminante – salvo poi raccogliere e dare voce alle paure degli imprenditori.
C’è un’altra ragione per la quale un cambio di leadership fa paura, e sono le elezioni. Il Labour di Jeremy Corbyn si è normalizzato abbastanza da rappresentare una minaccia reale con quel 40% con cui ha egregiamente perso a giugno, anche perché Corbyn, alla guida di un partito altrettanto spaccato in materia di Brexit, sta eludendo il problema continuando a parlare delle altre questioni che chiedono una risposta: povertà, disuguaglianze, alloggi. E sebbene le sue soluzioni possano non piacere, il fatto che se ne occupi è un merito in un paese tutto spaccato, senza guida, incapace di fare i conti con la realtà, felice di avere un passaporto blu tra le mani e forse rassicurato dal fatto che il Big Ben, silenzioso da agosto e ancora avvolto dalle impalcature, sia finalmente tornato far sentire i suoi cari rintocchi.