Brexit, non è detto che sarà hard

Congresso Tory: A Birmingham Theresa May si è posizionata al centro dello scacchiere politico, dimostrando di portare avanti politiche di sinistra, in nome di un obiettivo conservatore di creare una società coesa e chiusa
/ 24.10.2016
di Cristina Marconi

Theresa May si sta avventurando nella selva oscura dei negoziati sulla Brexit con molti punti interrogativi e un’idea chiara: riportare la giustizia sociale al centro delle politiche del suo governo, occupando lo spazio lasciato libero dalla sinistra autoreferenziale di Jeremy Corbyn e cercando di interpretare le istanze del voto sulla Brexit in modo da dare un messaggio chiaro ai cittadini anche qualora la richiesta al centro del referendum del 23 giugno scorso – ossia l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea – non dovesse verificarsi con la nettezza immaginata dall’elettorato. Perché anche se «Brexit vuol dire Brexit» due anni e mezzo, in termini politici, sono un’eternità e la May sa di dover consegnare subito al Paese qualcosa di solido che resista alla brutalità dei negoziati a venire. Quel qualcosa è un principio di lotta efficace alle disuguaglianze abissali che spaccano il Regno Unito.

La visione che la May ha del Paese non potrebbe essere più diversa da quella dell’ex celebre inquilina di Downing Street, Margaret Thatcher, ed è tutta incentrata su un’idea di società unita e coesa, in cui lo Stato sia pronto ad intervenire privilegiando i cittadini a scapito degli immigrati senza quell’attenzione religiosa al bilancio che ha contraddistinto i sei anni di David Cameron e George Osborne al potere. 

Durante la conferenza dei conservatori a Birmingham, teatro di una serie di discorsi forti e di rottura con il passato, la May ha messo in chiaro di prediligere il controllo sulle frontiere rispetto alla possibilità di accedere al mercato unico. E siccome il tema dell’immigrazione è la vera ragione per la quale una parte del Paese ha votato per uscire dalla Ue, la ministra degli Interni, Amber Rudd, ha lanciato la famigerata proposta, poi ritrattata, di imporre alle società di fare una lista dei loro dipendenti stranieri, mentre il responsabile della Sanità Jeremy Hunt ha parlato del progetto di formare un numero sufficiente di medici da rendere il servizio sanitario nazionale indipendente dalla forza lavoro straniera entro il 2025. Parole che, pronunciate appena qualche settimana fa, mentre proseguiva la luna di miele post-referendaria in cui l’economia sembrava sotto controllo e le prospettive del Paese addirittura migliorate, apparivano sconcertanti ma quasi plausibili, come se il Regno Unito avesse dimostrato una volta per tutte di essere impermeabile agli shock.

Poco dopo, però, il crollo della sterlina e le prime ripercussioni della valuta debole sul mercato britannico hanno dato un assaggio di quello che il futuro può riservare se il discorso politico continua ad essere confuso e minaccioso nei confronti dell’economia e degli investimenti. E il fatto che il più britannico dei prodotti, ossia l’oscura pastina spalmabile Marmite, sia stata al centro di una disputa tra la catena di supermercati Tesco e il colosso agroalimentare Unilever – che voleva aumentare il costo del prodotto del 10% riflettendo l’andamento dei cambi – ha chiarito a tutti che nessun Paese è un’isola. 

L’unica voce fuori dal coro, all’interno del governo, è stata quella del cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, che ha parlato di «turbolenze» in vista per il Regno Unito, e che sarebbe in rotta di collisione con i colleghi «brexiters», che lo accusano di non avere un piano economico funzionale al progetto di uscire dalla Ue e di vedere solo i rischi e non le opportunità dell’uscita dalla Ue. May è stata costretta a riconfermare la sua fiducia a Hammond, mentre deve vedersela con un altro ostacolo non da poco: i deputati conservatori, ma anche laburisti e LibDem, che chiedono che il parlamento possa votare sull’uscita dal mercato unico e che criticano i piani del governo di portare avanti una «hard Brexit» che danneggi l’economia.

May ha ribadito più volte che non permetterà che la volontà del popolo britannico venga travisata o alterata, ma deve comunque tenere a bada il rischio di una ribellione a Westminster: non avendo vinto le elezioni e avendo ormai superato di gran lunga il manifesto con cui i Tories sono tornati al governo nel 2015, la premier sa di doversi guardare le spalle sia dagli euroscettici oltranzisti che potrebbero rinfacciarle da un momento all’altro di aver fatto campagna per «remain», sia da una maggioranza di deputati che ha accettato a malincuore l’esito del referendum, se mai l’ha accettato, ma che è pronta a dare battaglia perché non si trasformi nel suicidio economico di un Paese. 

Theresa May ha un rapporto più distaccato con il suo cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond di quello che avevano i suoi predecessori. Il suo cerchio magico comprende due spin doctors, il trentaseienne Nick Timothy e la ex giornalista Fiona Hill, ed è soprattutto da Timothy, uno dei rari protagonisti della vita politica britannica ad essere di origini umili, che la premier ha tratto l’ispirazione per le sue politiche rivolte ai cittadini normali e alla classe lavoratrice e per i suoi attacchi alle «élite liberali», colpevoli di non capire le esigenze della gente comune.

E tra queste esigenze c’è innanzi tutto quella di non sentirsi trascurati a favore dei 3 milioni di immigrati europei che vivono e lavorano nel Regno Unito e che in molti casi possono raccontare delle storie di successo economico impensabili per l’ex classe operaia britannica, che soffre di un deficit di istruzione e formazione e che è rimasta isolata in zone depresse, lontane dal luccichìo di Londra e del sud est del Paese. «Se pensi di essere un cittadino del mondo, sei un cittadino del nulla. Non capisci proprio cosa significhi, la parola “cittadinanza”», ha dichiarato la May in uno dei passaggi più sorprendenti del suo discorso, visto quanto il Regno Unito debba ai cittadini del mondo che ci si sono trasferiti e hanno fatto fortuna, portando posti di lavoro e generose entrate fiscali. May sembrava una di quelle persone che scuotono gli alberi per far cadere i frutti: chissà quante persone, in quei giorni, hanno pensato di andare via dal Regno Unito senza neanche aspettare di vedere quanto draconiane saranno le leggi sull’immigrazione del Regno Unito post-Brexit. 

Ma nella sua ruvida operazione di «branding personale», May si è posizionata al centro dello scacchiere politico, dimostrando di essere in grado di portare avanti politiche di sinistra, espansive e stataliste, in nome di un obiettivo conservatore di creare una società vecchio stile, coesa e chiusa. Ha detto che sulla Brexit non commenterà giorno per giorno per non creare incertezza e false aspettative, e lei stessa sta mantenendo un profilo basso sulla stampa e sui media.

Dopo il congresso Tory, il partito aveva 14 punti di vantaggio sul Labour secondo YouGov, ma questo era prima che l’economia iniziasse a dare segni di turbolenza. Il fatto che di un personaggio popolare come l’ex sindaco di Londra Boris Johnson si sia scoperto che aveva scritto anche un editoriale pro-Europa, nel caso avesse deciso di schierarsi a favore di «remain», lascia la sensazione di una classe politica che ha scommesso con il destino del Paese senza curarsi delle conseguenze. Con i dati economici di adesso può far sorridere, ma se le cose andassero male gli elettori se lo ricorderebbero e Theresa May lo sa. Per questo sta giocando una partita a lungo termine, il cui primo obiettivo è evitare le elezioni, che la costringerebbero a fare promesse ancora più vincolanti e pericolose di quelle che sta già facendo. 

In secondo luogo si sta definendo presso l’elettorato come colei che vuole difendere i britannici dall’immigrazione e dai suoi eccessi. Una volta raggiunti questi due obiettivi, potrà dedicarsi al terzo: decidere con che tipo di Brexit procedere. Che sia veramente una «hard Brexit» è tutto da vedere.