Brexit, l’elefante in una stanza

Verso il 29 marzo – Dopo quasi tre anni da quello storico 23 giugno 2016 e un anno e mezzo di negoziati e di ministri dimissionari, il Regno Unito si appresta a uscire dall’Ue. Come lo farà non si sa. Quando non è più così sicuro
/ 11.03.2019
di Cristina Marconi

Manca una ventina di giorni e a Londra si respira un’atmosfera sospesa, quasi imbarazzata: nessuno sa cosa fare dell’elefante nella stanza, quella Brexit sbandierata e evocata miliardi di volte senza che nessuno si premurasse di definirla, come il mostro di Frankenstein da cui il suo inventore scappa via terrorizzato. Non lo sa Theresa May, la premier il cui percorso ormai da anni appare come un lento martirio pubblico in cui l’osservazione collettiva delle sue disavventure ha sostituito una riflessione seria su quello che si andava a fare, non lo sa il leader dell’opposizione, disponibile a un secondo referendum ma incapace di guidare gli elettori verso un’alternativa, e non lo sa ancora chi, dai mille frammenti di un percorso estremamente frastagliato, spera di costruire un percorso diverso che sia, perché no, magari un ritorno indietro. Per il prossimo voto sull’accordo raggiunto dalla May con Bruxelles ci si consola con l’idea che sarà una sconfitta di «soli» 60 o 100 voti, tutt’altra cosa certamente rispetto ai 230 del 15 gennaio scorso.

Bruxelles è inamovibile, sembra. L’incontro di martedì scorso tra le due squadre di negoziatori non avrebbe portato a nulla di abbastanza significativo sul nodo irlandese da convincere gli euroscettici a votare il testo: la clausola di salvaguardia per impedire che venga creata una frontiera fisica tra Irlanda e Irlanda del Nord anche nel caso di un mancato accordo commerciale post-Brexit tra Regno Unito e Ue non è cosa a cui gli europei siano pronti a rinunciare, mentre per il fronte oltranzista Brexiteer rappresenta una trappola per tenere il Paese impelagato nella Ue a tempo indeterminato. Le due proposte di Londra, ossia l’introduzione di un «comitato d’arbitraggio» per verificare che le due parti agiscano correttamente nella messa a punto di un accordo commerciale o l’applicazione di un «mini backstop» molto diluito, sarebbero state respinte con sdegno.

Secondo un documento diplomatico pubblicato dal «Guardian», l’incontro sarebbe stato «negativo» e il Regno Unito starebbe cercando una «soluzione legale a un problema politico», motivo per cui il negoziatore capo Ue Michel Barnier ha richiesto «una nuova bozza» agli inglesi. Toni molto accesi, per un comunicato di questo tipo. E un disaccordo così profondo che le due parti non avrebbero ancora messo in calendario un nuovo incontro.

Il tentativo della May di far crescere il sostegno per il voto del 12 marzo intorno alla sua proposta, che è anche l’unica ad avere un capo e una coda e a rispettare un minimo realismo nei confronti delle richieste di Bruxelles, sembrerebbe fallito, aprendo la strada al voto della sera successiva, il 13 marzo, per permettere al Parlamento di respingere l’ipotesi di un’uscita del Regno Unito dall’Ue senza accordo (no deal) e di chiedere, il giorno dopo, un’estensione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, quello invocato così frettolosamente da far arrivare il Paese all’appuntamento del 29 marzo totalmente impreparato.

Anche se la May andasse ad incontrare il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e strappasse qualche novità significativa, i tempi sarebbero troppo stretti per l’approvazione parlamentare: tutto si gioca entro domenica, con fonti di Downing Street convinte che alla fine la Ue cederà e dopo aver fatto finta di essere inflessibile tenderà la mano alla sua alleata May, ben sapendo che il resto potrebbe essere peggio. Il problema è che per tendere una mano ci sarebbe bisogno di avere la certezza di fare una cosa efficace e, con i Brexiteers che continuano a dire in giro che neppure il comitato arbitrale basterebbe a sopire le loro ansie e un parlamento spaccato come Westminster, questa certezza è lungi dall’esistere.

Ma nessuno è al sicuro in questa storia, neppure gli euroscettici che hanno fatto il buono e il cattivo tempo negli ultimi anni, complice una May troppo incline a compiacerli. Se non passerà l’accordo, non è detto che sia la loro versione distruttiva di Brexit, ossia il no deal, a prevalere. È molto più probabile che si vada verso una formula di compromesso ampia e annacquata in cui i desideri di indipendenza dovrebbero piegarsi alle esigenze di trovare qualcosa di votabile e accettabile: ci sta lavorando addirittura il leader laburista Jeremy Corbyn, molto più euroscettico nell’animo di tanti Tories ma convinto dall’emorragia di deputati dal suo partito a prendere una linea meno intransigente nei confronti della Brexit e a ribadire la sua idea che occorra mantenere il Paese nell’unione doganale.

In comune con la May ha il fatto di avere un partito spaccato, in cui c’è chi non vuole assolutamente la libera circolazione delle persone. La May, che in questi mesi ha lanciato vari appelli spiegando come la sua sia l’unica alternativa pro-Brexit (che permetterebbe anche a molti dei suoi rivali politici di iniziare a pensare al loro futuro senza questo ingombrante dossier tra i piedi), potrebbe tentare di lanciarne un ultimo, disperato. Chi vuole essere leader di un Paese che, con il no deal, deve ricostruire tutto e vedersela con una crisi economica autoindotta e imprevedibile? Anche «The Spectator», magazine conservatore e pro-Brexit ai tempi del referendum, lo ha fatto presente, senza risparmiare critiche alla May e alla sua gestione dell’intero dossier. «È tempo di voltare pagina rispetto a questo capitolo infelice della nostra storia politica e approvare il suo accordo è il modo più sicuro per farlo», si legge. E forse è proprio questo l’argomento più forte.

Il secondo referendum, che a questo punto più che come violazione della democrazia andrebbe letto come una soluzione ragionevole per uscire dall’impasse, soffre della stessa mancanza di compattezza tra i deputati e, soprattutto, del fatto che un ritorno alle urne terrebbe tutti con il fiato sospeso, essendo l’esito tutt’altro che scontato. Uno studio del Centre for Social and Political Risk dice che i britannici preferiscono bloccare la libera circolazione e l’immigrazione rispetto ad avere accordi commerciali favorevoli: la priorità resta quella e la Brexit ne è una chiara emanazione. Tutti vorrebbero voltare pagina, ma nessuno vuole farlo approvando l’accordo della May.

Perché dopo due anni e mezzo a parlare solo di Brexit, i problemi del Regno Unito stanno iniziando ad emergere e a richiedere più attenzione rispetto all’ipotetica applicazione di un ipotetico backstop sull’Irlanda, basterebbe un po’ di buona volontà negoziale per non sentirlo mai più nominare. A Londra si è iniziato finalmente a parlare con un po’ di serietà della tragedia degli accoltellamenti di giovanissimi: forse c’è voluta la morte di una diciassettenne bianca in un parco per mano di due ragazzi che neanche le hanno parlato perché la crisi, che va avanti da tempo, iniziasse ad essere vista come un allarme sociale e non come qualcosa di circoscritto a pochi gruppi di ragazzi senza futuro delle case popolari. Intanto gli stranieri in città leggono con preoccupazione crescente le notizie e, immobili come tutti nel Paese, organizzano feste, cene e raduni per registrarsi al «settled status», quello che permette di restare nel Regno Unito dopo la Brexit. Facendo buon viso a un gioco cattivo e inutile.