Brexit, fase cruciale

Il punto – A sette mesi dalla data formale dell’uscita di Londra dall’Ue e a poche settimane dal vertice che dovrebbe sancire l’intesa euro-britannica, a Londra può ancora accadere di tutto
/ 17.09.2018
di Cristina Marconi

I tempi stringono, e questo potrebbe essere un bene per raggiungere quell’accordo sulla Brexit che secondo il negoziatore capo Michel Barnier è possibile già tra sei settimane, magari nel corso di un vertice a metà novembre, a condizione che tutti siano «realistici». Ma il rapporto con l’Unione europea è l’ultimo dei problemi del Regno Unito, che ancora una volta sta cadendo vittima della faida interna tra euroscettici e europeisti all’interno del partito conservatore: d’altra parte se la lotta fosse meno accanita, non ci sarebbe mai stato nessun referendum sull’uscita dell’Unione europea. E la premier Theresa May, che fino a prima dell’estate era riuscita a sedare le liti, è ora più vulnerabile che mai perché a un certo punto anche a lei, maestra di immobilità politica, è toccato calare le carte e presentare una proposta, quella dei Chequers di luglio, che ha già suscitato una serie di dimissioni di alto profilo prima dell’estate e sulla quale i Tories sono pronti a dare battaglia.

La fronda si nasconde dietro un nome seriosissimo, lo European Research Group, che di suo evocherebbe studi ponderosi e articolate proposte alternative alla membership dell’Unione europea e che invece fino ad ora ha prodotto solo trame, complotti e riunioni semi-segrete con un solo punto all’ordine del giorno: come mandare via la May. Il leader è Jacob Rees-Mogg, un deputato che sembra uscito da un libro di P.G. Wodehouse e che ha un certo seguito nella base Tory per via di quella stessa inspiegabile illusione collettiva che fa sì che due persone nate nel privilegio come Nigel Farage e Boris Johnson siano percepiti come vicini al popolo e contro le elites.

La loro proposta sull’annoso problema di cosa fare tra Irlanda del Nord e Irlanda una volta che la prima sarà fuori dall’Unione europea è semplice: le cose resteranno uguali a adesso, perché non dovrebbero? Su molti altri punti il livello di superficialità è lo stesso e questo non significa che i Brexiters non abbiano argomenti in assoluto, ma piuttosto che la loro è una fobia ideologica che non sentono il bisogno di argomentare nel dettaglio. L’11 settembre si sono riuniti per complottare, salvo smentire il giorno dopo di voler un cambio della guardia a Downing Street. L’obiettivo? Tenere la premier sulle spine.

Il tema della cacciata della May, che terrà inevitabilmente banco nelle cronache politiche in attesa del congresso Tories che si terrà a Birmingham dal 30 settembre al 3 ottobre, non è solo dovuto alla Brexit, ovviamente. Anzi, alla sua gestione cerchiobottista del dossier più difficile dai tempi della seconda guerra mondiale non è mancata una certa saggezza che anche gli avversari riconoscono: non ha preso decisioni drastiche e in attesa che il Paese mettesse a fuoco la portata di quello che ha votato ha traghettato l’arco politico verso una «soft Brexit», cercando di scongiurare le ipotesi peggiore.

Il problema principale della premier è che ci sono altre persone che vogliono la sua scrivania a Downing Street e che Boris Johnson, ex ministro la cui performance al Foreign Office ha suscitato sopracciglia alzate e colpi di tosse, continua ad avere il prestigio della «wild card», dell’asso nella manica, dell’uomo così poco avvezzo a seguire le regole che magari potrebbe riuscire anche a piegare quelle europee. Una fonte citata dal «Times» lo ha descritto come «un figlio dei nostri tempi, un biondo fornicatore populista sul modello di Trump», ed è questo che continua a dargli energia: il presidente statunitense non potrebbe essere più screditato, ma l’economia va bene, e alcuni britannici pensano che lo stesso avverrà da loro, nonostante tutto.

Il fatto che solo l’1% dei leader delle grandi aziende sia a favore di una hard Brexit la dice lunga su come la comunità economica e finanziaria viva la prospettiva di nuovi anni di incertezza. Più della metà di loro preferirebbe che il referendum fosse annullato e che tutto rimanesse com’era prima, e così anche una parte crescente della popolazione e soprattuttto degli elettori del partito laburista, ma la May, come David Cameron prima di lei, è costretta a vezzeggiare gli oltranzisti invece di prendere atto apertamente di quello che ha già dimostrato di aver capito benissimo a Chequers, la residenza di campagna dove ha presentato la proposta: la Brexit è un suicidio inutile.

Ma per Rees-Mogg la piattaforma, che prevede regole comuni per semplificare i controlli alle dogane per i beni manifatturieri e agricoli e massima libertà per i servizi, «è una papera morente in una tempesta, se non proprio una papera già morta». Per placare gli animi la May giovedì scorso ha annunciato misure più dure sull’immigrazione, tema che le è caro dai tempi in cui era ministro dell’Interno, con la possibile introduzione di visti per i cittadini europei che vogliono trasferirsi nel Regno Unito e la fine del regime preferenziale nei loro confronti.

Se sia sufficiente o meno per evitare che un numero sufficiente di deputati presenti una mozione di sfiducia nei suoi confronti si saprà solo nelle prossime settimane. Secondo un ex sottosegretario, Steve Baker, ci sarebbero 80 deputati pronti ad affossare la piattaforma dei Chequers e tra mille smentite è ovvio che la situazione, a meno di 200 giorni dall’uscita ufficiale dalla Ue, fissata per il 29 marzo 2019, è incandescente. Boris Johnson, la cui vivace vita privata è stata oggetto di titoli e pettegolezzi nell’ultima settimana, dopo l’annuncio del divorzio dalla sua compagna di 25 anni, Marina Wheeler, non ha molto tempo per farsi avanti: la Brexit ha congelato il dibattito politico del Paese sia a destra che a sinistra, ma prima o poi arriverà una nuova generazione di politici e l’ex sindaco di Londra sa che potrebbe non farne parte. Nel partito c’è chi giura che mai e poi mai lavorerebbe con un uomo così infedele, sentimentalmente ma soprattutto politicamente, ma l’aria è così tesa che nulla si può escludere.

Dopo che Barnier ha teso la mano alla May indicando la possibilità di un accordo, da Bruxelles ha parlato anche il «poliziotto cattivo» Jean-Claude Juncker, che nel suo discorso sullo Stato dell’Unione ha fatto presente che la trattativa non consiste nel permettere alla premier di scegliere le ciliegie migliori dalla cesta per salvare la propria pelle a Westminster. Chi se ne va non può restare parte del mercato interno, e «senz’altro non delle parti del mercato interno che ha scelto», ha spiegato il presidente della Commissione prima di aggiungere: «Michel Barnier resta pronto a lavorare giorno e notte per raggiungere un accordo. Non sarà la Commissione a mettersi di traverso». Parole dure, che fanno appello al realismo e ricordano che l’Europa non è un menù dal quale scegliere. E la piattaforma dei Chequers, sebbene più responsabile di altre proposte, continua ad essere troppo vantaggiosa per Londra. Anche se, incredibilmente, in città non piace a nessuno.