Brexit, «deal» o «no deal»?

Gb-Ue – Il percorso sulla Brexit prosegue con il voto del Parlamento britannico chiamato ad approvare, entro Natale, l’accordo appena raggiunto con Bruxelles. Ma l’impatto in termini economici e sociali potrebbe risultare più complicato anche in caso di un «no deal»
/ 03.12.2018
di Cristina Marconi

La Brexit è un disastro, il Paese vuole la Brexit: cosa si fa? In questi giorni, intorno al totem dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, si stanno agitando fantasmi di ogni tipo. Dopo gli ostacoli negoziali con Bruxelles, si sono sollevate le obiezioni politiche più feroci da parte di un Parlamento che ha deciso di vendere cara la pelle in occasione del «voto significativo» dell’11 dicembre prossimo. Sembrava sarebbe stato quello il tema portante delle prossime due settimane quando ecco che sono arrivati i dati economici ad arrecare nuovo scompiglio. Sebbene fosse stata l’argomento chiave della campagna contro la Brexit, soprannominata «progetto paura» per la quantità di allarmi lanciati, la notizia che il pil britannico soffrirà con qualunque scenario, confermata dal cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond in una serie di interviste e dal governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney, ha fatto scalpore. Aggiungendo confusione alla confusione in un momento in cui la premier Theresa May sta cercando di chiudere nella maniera meno dannosa possibile una pratica aperta due anni e mezzo fa e foriera di enormi divisioni all’interno della società e della politica del suo Paese.

La May, che ha votato «Remain», ha dato un’interpretazione molto chiara del referendum del 23 giugno del 2016: per lei i britannici hanno chiesto di mettere un freno all’immigrazione europea, a cui però è legata la possibilità di rimanere nel mercato unico, godendo di tutti i benefici del caso e tutelando settori dell’economia fondamentali come la finanza, che sarà controversa ma rappresenta il 12% del pil britannico. Da lì quelle «linee rosse» che la premier ha delineato nella prima parte del suo mandato e che poi sono rimaste lì a legarle le mani anche quando c’erano da risolvere nodi gordiani come l’Irlanda del Nord. E ora i deputati proprio questo le rinfacciano, di essere stata l’unica a prendere sul serio il risultato di un voto che qualcun altro ha promosso al posto suo e che per una folta schiera di colleghi a Westminster, nonché per una stampa popolare che non ha esitato a dare del «traditore» a chiunque cercasse di dare della Brexit una lettura circostanziata, era intoccabile. Cercando di conciliare con realismo gli aspetti fattibili da quelli fantasiosi di questa avventura euroscettica nazionale.

Mercoledì scorso sia il governo che la Banca d’Inghilterra hanno detto la loro sul futuro dell’economia, mettendo in chiaro che tutto ha un prezzo, nel mondo della Brexit. Con l’accordo raggiunto da Bruxelles e dalla May, ad esempio, il pil perderebbe il 4% in quindici anni e ognuno avrebbe 1100 sterline in meno all’anno, mentre con il «no deal» l’impatto sarebbe ben peggiore, tra il 7,7% e il 9,7%, e colpirebbe soprattutto il Paese al di fuori di Londra, secondo le valutazioni del governo. Inoltre, i prezzi delle case crollerebbero di un terzo e la sterlina perderebbe un quarto del suo valore nel breve termine, dal punto di vista del governatore Mark Carney, che ha messo in guardia sul fatto che un «no deal» porterebbe a una recessione peggiore di quella della crisi del 2008, pari al 10,5% nei primi cinque anni.

L’ipotesi di un accordo di libero scambio sul modello canadese, poi, secondo il governo inciderebbe del 6,7% sull’economia, mentre se si riuscisse a realizzare quel «commercio senza frizioni» sognato dalla premier, a condizione di mantenere la libera circolazione dei lavoratori che lei esclude a priori, il danno sarebbe solo dello 0,6%. Senza immigrazione europea, infine, bisogna calcolare almeno il 2,5% in meno per l’economia, perché è proprio questo uno dei fattori più importanti per le prospettive di crescita futura. «Se si guarda al punto di vista strettamente economico, ci sarà un costo nell’uscire dalla Ue perché ci saranno ostacoli al commercio», ha ammesso il cancelliere Hammond, aggiungendo che «altre idee» potrebbero emergere nel caso la May non potesse radunare la maggioranza necessaria per far approvare il suo accordo.

Piano piano che ci si abitua al buio, stanno iniziando a emergere i contorni delle soluzioni possibili a una débâcle a Westminster e la data dell’11 dicembre da ultimatum si sta sempre più facendo «penultimatum». Perché le alternative ci sono. Innanzi tutto il 4 dicembre l’avvocato generale della Corte europea di giustizia dirà cosa pensa della possibilità che il Regno Unito revochi l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona senza l’approvazione dei Ventisette. Può Londra mettere il tasto «pause» sulla Brexit, come chiesto dai deputati scozzesi che hanno sollevato il caso, per fare un secondo referendum? Prima di arrivare a questa opzione, pericolosa visto che i sondaggi non danno segno di cambiamenti radicali nell’opinione pubblica e difficile da eseguire visto che l’iniziativa dovrebbe partire da Downing Street, la cui inquilina attuale ritiene la sola idea un tradimento della democrazia britannica e del voto espresso dagli elettori, ci sono altre opzioni. Dopo l’11 dicembre, in caso di bocciatura, il governo ha 21 giorni per fare un intervento ai Comuni e spiegare come intende procedere, trasformando la propria linea in una mozione da far approvare entro una settimana. Per bloccare il «no deal» che avverrebbe automaticamente la sera del 29 marzo del 2019 il governo dovrebbe però presentare un disegno di legge.

Siccome si pensa che i mercati reagirebbero male a una bocciatura dell’accordo, facendo crollare la sterlina, l’idea potrebbe essere quella di proporre lo stesso testo per un secondo voto dopo qualche giorno. Al di là degli scenari economici negativi, il testo della May ha il vantaggio di conciliare gli inconciliabili e di lasciare, nella dichiarazione politica non vincolante messa a punto con Bruxelles, abbastanza libertà per negoziare relazioni future di tipo meno punitivo. Per queste ragioni secondo il «Financial Times», che pure è sempre stato a favore del Remain, bisogna mandare giù l’accordo, «dura realtà rispetto alle illusioni e alle bugie dei fanatici della Brexit», e approvarlo per iniziare a parlare di cose più produttive. Considerando che difficilmente da Bruxelles arriverà qualcosa di meglio, perché i Ventisette ritengono di aver fatto già fin troppe concessioni.

L’appuntamento dell’11 dicembre si presenta così: dopo cinque giorni di dibattito, potranno essere presentati e votati degli emendamenti sul testo finale dell’accordo, anche se non è chiaro se prima o dopo la discussione sulla mozione centrale, che al momento è fondamentalmente la richiesta di approvare o bocciare il compromesso raggiunto. La May ha bisogno di 320 voti per l’approvazione, nel suo partito ci sono almeno 81 ribelli e il DUP nordirlandese le ha sottratto i 10 deputati di sostegno, infuriati per una soluzione sull’Irlanda che non piace neppure ai paramilitari lealisti. Però ci sono i laburisti, confusi e quasi senza guida, e qualcuno potrebbe decidere che il «no deal» è l’unico vero nemico. In queste settimane tutti parleranno ad alta voce, la posta in gioco è più alta della Brexit, quando la May e il laburista Jeremy Corbyn si confronteranno in tv il 9 dicembre più di qualcuno penserà che non sono i leader del futuro, qui c’è da ricostruire un Paese. Quello estorto a colpi di sentenze e ricorsi è diventato un voto troppo «significativo» e questo la May lo sapeva, tanto che aveva cercato in tutti i modi di evitarlo. Saggio o poco democratico?