Brexit dance a Birmingham

Congresso Tory – All’indomani del durissimo attacco di Boris Johnson al suo piano per l’uscita dall’Ue, Theresa May ha lanciato un appello all’unità del partito ribadendo che non ci sarà un secondo referendum
/ 08.10.2018
di Cristina Marconi

Come se fosse avvenuta in tempo di pace, la conferenza dei Tories a Birmingham si è chiusa con l’immagine di Theresa May che ballava su Dancing Queen degli Abba e sfoggiava le sue mosse robotiche diventate famose durante il suo viaggio in Kenya, prima di iniziare un discorso centrista e positivo, ironico e personale in cui ha annunciato, tra le altre cose, la fine dell’austerity economica. La Brexit è rimasta sullo sfondo, la May ne ha parlato dopo circa 20 minuti dall’inizio ed è stata solo uno degli argomenti su cui ha risposto in modo duro, anche se senza mai citarlo per nome, a Boris Johnson, il suo ex ministro che nelle passate settimane ha usato ogni mezzo per attaccarla violentemente. La convention, che si temeva sarebbe stata un mattatoio politico, si è rivelata invece una buona occasione per la premier per fare quello che sa fare meglio, ossia prendere tempo, e dare un messaggio chiaro ai suoi avversari, a partire dall’eterno complottatore Johnson al leader dell’opposizione, il sessantanovenne socialista Jeremy Corbyn: il mio percorso sarà pure accidentato, ma intanto io sono ancora qui, mentre voi ancora non siete arrivati da nessuna parte. 

E sì che rimanere in sella dopo quello che è avvenuto appena un anno fa, ossia quel discorso funestato da una tosse paralizzante, da un disturbatore che le ha allungato un modulo per la dichiarazione dei redditi e dal crollo delle lettere dello slogan sullo sfondo non è stato facile. Un politico con meno nerbo della May sarebbe sceso dal palco in quell’occasione, o avrebbe finito col soccombere dopo uno dei mille attacchi, dimissioni, voltafaccia a cui la premier è stata soggetta negli ultimi dodici mesi. Boris, che continua a riempire le sale anche quando parla a un evento a margine dei lavori, ha detto che il suo piano per la Brexit è «disturbato», «pazzoide», e via insultando, ma non ha saputo indicare un’alternativa e ha suggerito di sostenere la May a condizione che torni a quanto detto a Lancaster House il 17 gennaio del 2017, ossia quando i negoziati con Bruxelles non erano ancora iniziati seriamente e il principio di realtà non aveva fatto ancora capolino nell’arena politica britannica.

La premier non ha neppure fatto allusione a questa possibilità, così come non ha mai citato per nome il piano dei Chequers, quello presentato a luglio e che ha fatto infuriare tutti da Londra a Bruxelles, al quale però resta attaccata perché è l’unico in grado di risolvere la questione che le sta più a cuore al momento, ossia l’equilibrio geopolitico dell’Irlanda e l’integrità del Regno Unito.

La May ha fatto presente come l’unica soluzione sia «un accordo di libero scambio che permetta un commercio senza barriere dei beni» e che protegga «la nostra preziosa unione». Un risultato impossibile da garantire «con un semplice accordo di libero scambio, neanche usando le ultimissime tecnologie», ha spiegato la premier riferendosi all’idea di un accordo «super Canada» vagheggiata da Johnson senza mai scendere nei dettagli pratici. La May ha detto che «non tradiremo il risultato del referendum e non spaccheremo il Paese e si è detta fortemente contraria a un secondo voto, che danneggerebbe la fiducia nella democrazia britannica. Se, come ritengono in molti, il Regno Unito della Brexit è come il Titanic che si avvicina al disastro, Theresa May continua a essere l’unica ad aver ascoltato le spiegazioni sull’iceberg e a sapere dove si trova. Non ha cambiato rotta, e questa forse è la sua principale colpa, però continua ad essere la sola che sull’Unione europea è andata oltre gli slogan e ha fatto i conti con i problemi reali, anche se i leader europei non glielo riconoscono del tutto: il piano dei Chequers non piace neppure a loro, che lo definiscono «impraticabile».  

C’è stato un non so che di aria da campagna elettorale, in queste settimane di conferenze politiche. La May ha molto apertamente parlato agli elettori laburisti moderati, a quelli che non si riconoscono nella leadership di Jeremy Corbyn, definita una «tragedia nazionale» per lo scandalo sull’antisemitismo e che non sopportano il clima di odio che si è creato nel partito. Nei giorni passati la premier aveva annunciato l’intenzione di organizzare un grande festival della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord nel 2022, poco prima delle prossime elezioni fissate in calendario, per mostrare al mondo l’innovazione e le capacità del Paese dopo la Brexit, sul modello di quanto avvenuto in occasione delle Olimpiadi del 2012. O della grande esposizione organizzata dalla regina Vittoria nel 1851, ma con un costo di 120 milioni di sterline a carico dei contribuenti.

Boris, da parte sua, ha calato le carte e ha parlato da aspirante premier, anche se non ha voluto sfidare apertamente la May. La sua soluzione al problema assai tecnico dell’Irlanda è visionaria e massimalista, ma non necessariamente utile a dirimere la questione: vuole costruire un ponte tra la Gran Bretagna e l’isola celtica, secondo quanto spiegato in un’intervista. Ha cercato di descrivere quello che sarebbe il Paese da lui guidato, tra finanziamenti all’NHS senza aumenti fiscali, giocando su quella che è la sua carta principale, ossia l’ironia e la capacità di far sognare. Da qui la scelta della May di accennare due passi di danza e tornare ai toni che l’avevano portata nella primavera del 2017, poco prima della scellerata decisione di fare le elezioni anticipate, a livelli di gradimento altissimi. 

Poco prima dell’appuntamento di Birmingham, la May ha calato un’altra carta importante, ossia la stretta sull’immigrazione europea, promettendo che dopo la Brexit i cittadini comunitari saranno trattati alla stregua di tutti gli altri e che verrà messo in atto un sistema che servirà a fare in modo che solo i lavoratori qualificati abbiano accesso al Paese, con la possibilità di attuare delle misure speciali di «mobilità» per permettere a settori come l’agroalimentare di avvalersi di manodopera a basso costo per periodi brevi. «Penso che la gente sentirà la differenza perché per la prima volta da vari decenni a questa parte sarà il governo britannico a decidere chi potrà venire nel Paese», ha spiegato la premier, che dai tempi in cui era all’Home Office ha la reputazione di essere una intransigente in materia di immigrazione e che ha anche annunciato un aumento della tassazione per gli stranieri che vogliono comprare immobili nel Regno Unito, spiegando che i proventi andranno ad aiutare i senzatetto. 

Che tutto questo sarà sufficiente a tenerla in sella per altro tempo, non è dato saperlo. Tra le varie voci incontrollabili che circolavano prima della conferenza c’era quella secondo cui la May avrebbe annunciato la data delle sue dimissioni per garantirsi una certa tranquillità nella fase finale del negoziato con Bruxelles e scongiurare l’ipotesi di un «no deal» che, sebbene non si possa escludere, piace solo a un manipolo di Brexiteers estremisti. L’ipotesi di elezioni anticipate piace invece al laburista Corbyn ed è molto apprezzata anche da chi pensa che sia l’unica strada per fare chiarezza in uno scenario politico molto confuso. Nella mattinata di mercoledì scorso, all’incirca all’ora in cui Theresa May doveva iniziare a parlare, è uscita la notizia che un deputato euroscettico, James Duddridge, avesse consegnato una lettera di sfiducia a Sir Graham Brady. Sembrava l’inizio di un accoltellamento, poi la May ha azzeccato il tono del discorso e ha vinto lei. Godendosi un momento irreale da leader normale, che non ha un problema grave come la Brexit davanti a sé.