Boris non salva la Regina

Brexit – Elisabetta II accoglie la richiesta del governo di sospendere l’attività del Parlamento fino al 14 ottobre. Il provvedimento è voluto da Johnson per forzare una Brexit no deal e impedire nuove discussioni all’opposizione
/ 02.09.2019
di Cristina Marconi

Ha dimostrato di non avere scrupoli, il premier britannico Boris Johnson: come temuto, ha deciso di sospendere il Parlamento per cinque invece che tre settimane, lasciando di fatto ai deputati un pugno di giorni per organizzare una strategia contro la Brexit senza accordo. La regina Elisabetta II, che non ha i poteri per respingere le richieste di un primo ministro che ancora abbia la fiducia di Westminster, ha approvato la sospensione, anche se c’è da immaginare lo scarso entusiasmo di Buckingham Palace davanti al fatto di essere stato trascinato nel turbine della Brexit nonostante i chiari segnali di volerne rimanere fuori.

E la sovrana, che deve affidare al soft power la sua capacità di incidere su una vita politica di cui è garante simbolico, difficilmente avrà apprezzato di vedere il suo nome associato a una misura che in molti, a partire dallo Speaker della Camera John Bercow, altra figura teoricamente neutrale, hanno definito un «oltraggio costituzionale». E che solo il 27% degli elettori, stando ai primi sondaggi, ritiene accettabile.

Esiste qualche fondamento ragionevole alla decisione di Boris, che ha come suo principale consigliere politico lo scaltrissimo, spregiudicatissimo Dominic Cummings, la mente della campagna che portò alla vittoria del leave al referendum del 2016. In autunno ci sono i congressi dei partiti politici e il Parlamento rimane chiuso per tre settimane. È comprensibile che Johnson, diventato primo ministro da poco, voglia inaugurare una nuova sessione del Parlamento, ossia presentare, attraverso un discorso della Regina già fissato per il 14 ottobre, le priorità del suo governo: fondi alla sanità, lotta al crimine e altri temi in grado di dare popolarità in caso di elezioni, anche a stretto giro.

Anche perché la sessione attuale è una delle più lunghe della storia e dura dal giugno del 2017, quando la ex premier Theresa May uscì molto malconcia dalla disgraziata idea di indire elezioni lampo. Di solito l’apertura di una nuova sessione si fa chiedendo una sospensione di qualche giorno, certo non di due settimane e sicuramente non in un momento in cui ci sono decisioni campali da prendere in vista della Brexit di Hallow’een.

Con meno di nove settimane all’appuntamento del 31 ottobre, Westminster ha solo la settimana prossima e le ultime due di ottobre per trovare una soluzione e scongiurare il pericolo di un’uscita senza accordo, unico punto su cui una maggioranza di deputati conviene. Da Downing Street si respira uno strano ottimismo sulla possibilità di chiudere qualcosa di accettabile con Bruxelles, laddove per «accettabile» si intende «privo di clausole di salvaguardia sull’Irlanda» percepite come vessatorie. E come Theresa May in passato, anche Johnson farebbe volentieri a meno di dover passare attraverso un Parlamento che si è dimostrato riottoso e inconcludente dai tempi della Brexit.

Ma in pochi si fidano del fatto che Johnson stia davvero cercando un accordo e pensano che il governo punti direttamente al no deal, opzione che ha tutti i motivi di lasciare più che perplessi: i preparativi hanno qualcosa di grottesco nel loro sembrare l’organizzazione di una cittadella in vista di un assedio. Solo che l’assedio, in questo caso, è autoinflitto e non necessario e i preparativi, a cui sono stati destinati 2,1 miliardi di sterline, sono accompagnati da quella che sarà una massiccia campagna di comunicazione per cercare di dare all’elettorato l’idea che stia avvenendo qualcosa di vagamente ragionevole.

Visto che Buckingham Palace non è il Quirinale e che la regina non è potuta intervenire, sta ora al Parlamento fare il migliore uso possibile del tempo che gli rimane. Le opzioni sul tavolo sono due. Una, più semplice ma carica di conseguenze, è cercare di sfiduciare il premier e portarlo alle dimissioni (passo non automatico dopo una sfiducia). Questo potrebbe essere fatto già nella prima settimana di settembre, ma c’è un problema, sempre il solito: nessuno vuole rischiare di avere Jeremy Corbyn a Downing Street. Il leader dell’opposizione è una figura così debole e dalle idee considerate irricevibili che in questi anni di crisi profondissima non ha mai rappresentato un’alternativa, ma un incentivo a non cambiare niente, anche quando si era nel vicolo cieco creato da Theresa May o, come in questo caso, davanti a una linea che anche i commentatori sul conservatorissimo «Daily Telegraph» hanno definito antidemocratica.

Se si andasse a elezioni con il Labour a guida Corbyn, il rischio di vittoria rimarrebbe comunque basso, lasciando l’elettorato confuso su quale male minore scegliere. L’ipotesi che si possa raggiungere una maggioranza con l’attuale parlamento per un suo governo, o un esecutivo di scopo guidato da figure più centriste come la laburista Harriet Harman o il conservatore europeista Kenneth Clarke è assai esile. Inoltre Johnson potrebbe fissare le elezioni dopo il 31 ottobre, facendo comunque uscire il Paese con il no deal.

L’altra strada è più lunga e incerta e riguarda la possibilità di blindare l’azione del governo, costringendolo a chiedere una proroga dell’articolo 50, ossia dell’uscita dalla Ue prevista per fine ottobre, in caso di mancato raggiungimento di un accordo. Già martedì mattina, alla fine della pausa estiva, i deputati potrebbero fare richiesta di una procedura d’emergenza per un testo da votare mercoledì stesso. Questo legherebbe le mani a Johnson, che però ha un’arma: alla Camera dei Lords non ci sono opzioni procedurali in grado di accelerare i tempi e anche se esiste una maggioranza forte a favore del no deal, se i sostenitori prendessero la parola per ore nessuno potrebbe fermarli.

Resta un aspetto da considerare: ai britannici gli abusi di potere non piacciono e quella di Johnson è una mossa rischiosa, di quelle che il Paese potrebbe non perdonargli mai e che potrebbe, per eccesso di baldanza, cambiare le carte in tavola e far girare il vento dopo gli anni di bonaccia sulla Brexit.